Euro tunnel/1 “Il consolidamento di bilancio è necessario ma i risparmi richiesti agli Stati sono eccessivi e non potranno mai aiutare a risanare il debito”. Intervista a Martin Schulz, presidente del Parlamento Ue e candidato socialdemocratico alla presidenza della Commissione
Martin Schulz, presidente del Parlamento Europeo e candidato socialdemocratico alla presidenza della Commissione Europea, è un politico sui generis. Milita nella Spd da quando aveva 19 anni ed è appassionato di calcio e letteratura. A 18 anni la sua carriera di calciatore venne compromessa da un infortunio al ginocchio. Ha poi gestito per anni una piccola libreria, che esiste ancora, e Il Gattopardo è uno dei suoi romanzi preferiti; nel frattempo faceva il sindaco nella piccola città di Würselen.
Nel 1994 viene eletto al Parlamento Europeo, nel 2004 è alla guida del Gruppo dei Socialisti e Democratici (un anno dopo il famoso «duello verbale» con Berlusconi), e nel 2012 viene eletto presidente. Schulz è distante dall’immagine del freddo politico tedesco: simpatico e ironico, non ha mai nascosto di avere un passato da alcolista. E nel suo ultimo libro, Il gigante incatenato (appena pubblicato in Italia da Fazi), non risparmia critiche alla gestione della crisi da parte delle élite europee e all’architettura «storta» dell’eurozona. L’abbiamo incontrato in occasione della presentazione del suo libro a Roma.
Iniziamo dalla Germania, e dalle responsabilità che ha nella crisi europea. Nel libro non si parla del surplus commerciale tedesco, della mancanza di domanda interna, né del potere accumulato da Berlino. «Non è rendendo più debole la Germania che si rafforzano i paesi della periferia», replica Schulz, «e la Germania ha ormai ceduto alla Cina il titolo di campione mondiale delle esportazioni». Il suo giudizio sulle politiche realizzate dai governi del Sud Europa? «Ci sono grandi passi avanti fatti dal punto di vista del consolidamento del bilancio, a partire dall’introduzione del Fiscal Compact». E l’Italia? «Anche qui i passi avanti sono stati importanti, con le misure di riduzione del deficit introdotte dal governo Monti prima e da Letta poi».
Ma come si fa con il Fiscal Compact a difendere il welfare state europeo? «Non dobbiamo dare delle interpretazioni sbagliate. Il Fiscal Compact – replica Schulz – vincola l’aumento del debito pubblico alla crescita dell’economia. Se devi spendere il 20-25% del bilancio dello stato per pagare gli interessi passivi, sono soldi sottratti allo sviluppo. Ma se il Fiscal Compact ci porta a bloccare la crescita, necessaria per ridurre il peso del debito, allora dobbiamo trovare altre soluzioni, avere una strategia d’investimento a livello europeo».
Il riconoscimento al necessario «consolidamento di bilancio« realizzato in Italia dai governi di larghe intese si accompagna a una critica agli eccessi dell’austerità: «I risparmi richiesti oggi sono oggettivamente eccessivi e non potranno mai aiutare a risanare il debito. In Spagna, Portogallo, Italia e soprattutto in Grecia la disoccupazione è drasticamente aumentata, l’economia ha subito una battuta d’arresto e, nonostante la massiccia politica di risparmio, la spirale del debito non è stata interrotta», scrive nel volume. E critica l’idea che «alcuni paesi europei avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità».
All’Italia e ai paesi della periferia l’Europa ora chiede «riforme strutturali», sul modello di quelle introdotte in Germania dal governo socialdemocratico. «Abbiamo modelli economici diversi in ciascun paese europeo – risponde Schulz è difficile quindi prendere le riforme introdotte in un paese come modello per gli altri. I partiti socialdemocratici dovrebbero tener conto che ci sono alcuni elementi comuni tra noi: il lavoro dev’essere pagato ovunque con salari dignitosi, non può essere un lavoro a qualunque condizione. Un secondo elemento comune è l’importanza di un salario minimo, legato al Pil del paese. E il terzo elemento – continua Schulz è che nessun paese può sopravvivere se l’istruzione e il sostegno ai giovani non è al centro dell’azione del governo».
Il presidente del Parlamento europeo rifiuta, nel suo libro, «l’idea neoliberista secondo cui il modello sociale europeo costituisca uno svantaggio competitivo» e che l’unica soluzione sia un’«armonizzazione verso il basso» degli standard sociali. Al contrario, dice, bisogna «rafforzare il nostro modello sociale unico al mondo», approfondendo il processo di integrazione.
L’attento equilibrismo tra realismo istituzionale e critica delle politiche europee lascia spazio a qualche affondo quando i temi si fanno più generali. Schulz ricorda che la crisi è stata causata dalle banche, non dagli stati, e che «l’indebitamento statale dipende in buona parte anche dal salvataggio delle banche spregiudicate». «L’Unione ha imposto un’austerity a senso unico senza accompagnarla a sufficienti misure per creare crescita e impiego»; «è stata proprio la gestione della crisi a sprofondare l’Europa nell’abisso» scrive nel libro. E ammette che l’Ue ha un grave deficit democratico: «Se l’Europa fosse uno stato nazionale sarebbe la prima a non soddisfare i criteri di ammissione dell’Unione, perché in molti settori non è abbastanza democratica».
Ma la critica più radicale è rivolta al neoliberismo, il problema di fondo da cui è scaturita la crisi attuale. Nel libro Schulz punta il dito contro la Commissione, colpevole di aver «portato avanti l’agenda neoliberista», dagli anni novanta in poi. Ma la cosa veramente tragica secondo Schulz è che «le tesi dei neoliberisti siano state riprese e applicate – seppure in forma attenuata – anche dai partiti socialdemocratici europei», a partire dal New Labour di Tony Blair, che «hanno liberalizzato il mercato del lavoro e deregolamentato quello finanziario». «Hanno ragione coloro che rimproverano ai politici di aver gestito la crisi in modo da aggravare le disuguaglianze sociali».
Eppure, nel suo libro, c’è dell’ottimismo: «Nonostante gli errori fatti, proprio grazie alla crisi si manifesta la prima reale opportunità di fare piazza pulita del neoliberismo». Le alternative proposte da Martin Schulz sono coraggiose: democratizzare il processo decisionale europeo, permettendo al Parlamento di proporre le leggi; introdurre uno standard europeo sul salario minimo, rilanciare gli investimenti pubblici con gli eurobond; mettere sotto controllo la finanza separando banche d’investimento e banche commerciali, limitando i derivati e gli altri strumenti speculativi, regolamentando le agenzie di rating, introducendo una tassa sulle transazioni finanziarie, chiudendo i paradisi fiscali.
Ma resta grande la distanza tra l’«Europa ideale» delle analisi di Schulz e l’«Europa reale» delle politiche concrete. Sui paradisi fiscali, ad esempio, nel dicembre scorso la richiesta avanzata al Parlamento di Bruxelles dal gruppo della Sinistra unita europea (quello di Tsipras) per «uno sforzo misurabile e tangibile contro l’evasione e l’elusione fiscale» è stata bocciata quasi all’unanimità. Con la Spd al governo nella grande coalizione a Berlino e con le incertezze sulla tenuta del voto ai socialdemocratici alle elezioni europee, gli equilibrismi di Schulz sono destinati a continuare. Ma le possibilità di cambiamento a Bruxelles passano necessariamente per il suo (assai incerto) arrivo alla presidenza della Commissione europea. Alexis Tsipras ha già dichiarato che lo appoggerà.