Il prodotto interno lordo compie 80 anni. Molto più di un numero, il pil ha rappresentato un modello di società anche i processi politici e culturali. Ma come disse il suo stesso inventore, l’economista Simon Kuznets, ogni generazione deve riformulare i propri indicatori in risposta al mutare delle condizioni
Il prodotto interno lordo (pil) ha appena compiuto ottant’anni. Fu, infatti, nel 1934 che Simon Kuznets presentò il primo rapporto sul sistema di contabilità nazionale al congresso degli Stati uniti. Nel pieno della Grande Depressione, i governi occidentali erano alla disperata ricerca di un qualche indicatore per monitorare lo stato dell’economia. Con il pil, Kuznets fece esattamente ciò: aggregò una serie di dati relativi alla spesa in beni e servizi nell’economia di mercato in un unico numero, disegnato per crescere in tempi di bonanza e decrescere in tempi di contrazione economica. Pochi anni dopo, la Seconda guerra mondiale conferì al pil e al sistema di contabilità nazionale un’importanza senza precedenti nella politica: Kuznets venne nominato advisor dell’amministrazione Roosevelet ed i suoi dati vennero utilizzati per pianificare la conversione dell’economia civile in macchina da guerra senza ostacolare i consumi interni, un vantaggio importante nel generare risorse per la guerra (evitando così le strozzature vissute dalla Germania di Hitler). Questo permise agli americani di surclassare tutte le altre nazioni coinvolte nel conflitto, terminando con un settore industriale intatto e milioni di consumatori pronti a sostenere l’espansione economica di Washington a livello globale nel periodo postbellico. Dopo Bretton Woods e la definizione delle prime linee guida sulla contabilità nazionale prodotte dall’Onu, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale cominciarono ad ‘esportare’ il pil nel resto del mondo, trasformando questo numero nel gold standard del successo economico del XX secolo.
Molto più di un numero, il pil ha rappresentato un modello di società, influenzando non solo le politiche economiche, ma anche processi politici e culturali. La nostra geografia, le nostre città, i nostri stili di vita sono definiti dal circolo di continua produzione e consumo esemplificato dal pil. Questo numero ha colonizzato anche il lessico della governance e la distribuzione del potere a livello globale. Club internazionali come il G8 o il G20 sono definiti in base al pil. Concetti come «mercati emergenti » e «potenze emergenti » sono legati alla crescita nominale del pil, così come la distinzione, decisamente discutibile, tra mondo sviluppato e sottosviluppato (o in via di sviluppo) .
Al giorno d’oggi, la convergenza delle crisi economiche, sociali e ambientali ha generato una preoccupazione crescente tra economisti progressisti, politici e studiosi, che stanno guidando un dibattito internazionale circa i difetti e le aberrazioni generate da questo numero. Recentemente, la rivista Nature ha pubblicato un appello globale che invita i governi a “lasciarsi il pil alle spalle”. Il pil è ‘lordo’ perché non include l’ammortamento di beni utilizzati nel processo di produzione (ad esempio, macchinari, attrezzi, veicoli, ecc.). Tutto ciò che è scambiato al di fuori del mercato (ad esempio all’interno delle famiglie, nelle economie informali, attraverso il baratto, ecc.) non conta per il pil. Inoltre, il pil non tiene conto del valore delle risorse naturali consumate nel processo di crescita economica, perché queste sono messe a disposizione gratuitamente da madre natura. Infine, il pil non prende in considerazione i costi economici dell’inquinamento e del degrado ambientale, che sono ovvie conseguenze dello sviluppo industriale. Un paese potrebbe distruggere il proprio sistema sociale, dilapidare le proprie risorse naturali e inquinare i propri ecosistemi in modo irreversibile, ma il pil registrerebbe tutti questi abusi come progresso economico.
Tali omissioni rendono il pil una misura molto selettiva della performance economica, e decisamente inadeguata e pericolosa se applicata alla misurazione del benessere sociale. I servizi resi al livello domestico, per esempio, hanno un impatto economico fondamentale, anche se non sono considerati ‘produttivi’ dal pil. Se i governi dovessero pagare per le innumerevoli funzioni svolte a livello domestico (dalla produzione di cibo, all’educazione dei bambini e cura degli anziani), le nostre economie smetterebbero di funzionare. Uno studio del Bureau of Economic Analysis stima che il valore della produzione domestica negli Stati uniti ha rappresentato oltre il 30 % dell’output economico ogni anno dal 1965 and 2010, con un picco del 39 % nel 1965 , scendendo al 25,7 % nel 2010. Ma il pil ignora le funzioni economiche svolte nel contesto familiare, nel volontariato e nella vita locale delle nostre comunità. In molti paesi, i beni e servizi scambiati informalmente forniscono la sussistenza necessaria a milioni di persone e spesso costituiscono la spina dorsale dell’economia reale, anche se non vengono registrati nel pil. Trascurare l’input delle risorse naturali solo perché non vengono ‘vendute’ da madre natura ci fa dimenticare che la crescita economica è possibile solo a causa di una fornitura continua di ‘capitale’ da parte degli ecosistemi naturali. La produzione agricola non sarebbe possibile senza terreni fertili, acqua, aria e altri servizi ecosistemici. L’industrializzazione non sarebbe possibile senza i combustibili fossili, gli idrocarburi e le fonti energetiche messe a disposizione dal pianeta. Quando queste risorse si esauriscono, si mette in pericolo non solo il progresso economico, ma anche l’equilibrio naturale che rende la vita possibile. È questo il modello di sviluppo che desideriamo nel XXI secolo?
Qualunque manuale di contabilità ci ricorda che il reddito è uguale al ricavo meno «tutti» i costi. Siccome pil non tiene conto di settori chiave della produzione economica informale e naturale, e trascura costi significativi (per esempio, quelli relativi all’inquinamento, le tensioni sociali, ecc.), nessun manager penserebbe di usarlo per monitorare la performance di un’azienda. Eppure, è diventato il parametro chiave per guidare le politiche di interi paesi. Anche l’Ocse riconosce che “se mai ci fosse un’icona controversa nel mondo delle statistiche, questa è il pil. Misura il reddito, ma non l’uguaglianza, misura la crescita, ma non la distruzione, e ignora valori come la coesione sociale e l’ambiente. Ciononostante, i governi, le imprese e probabilmente la maggior parte delle persone lo trattano come un dio.”Anche la commissione istituita da Joseph Stiglitz e Amartya Sen ha evidenziato la profonda inadeguatezza del pil come misura della performance economica, ricordandoci i rischi associati con il considerare il pil un indicatore di progresso: “questo porta a conclusioni fuorvianti circa il benessere delle persone, comportando decisioni politiche sbagliate.”
Già nel 1934, Kuznets mise in guardia la classe politica circa il rischio di abusare il pil. In particolare, sottolineò come “il benessere di una nazione non si può dedurre da una misura del reddito nazionale.” Alcuni anni dopo, sostenne che non ha senso promuovere la crescita del pil per sé. Non era la quantità della crescita che interessava Kuznets, ma la sua qualità. Kuznets sapeva molto bene che il modo in cui misuriamo la performance economica influenza le decisioni che prendiamo e le politiche che sosteniamo. Per questo raccomandò che ogni generazione avesse la libertà di cambiare il modo in cui si misura il progresso “formulando e riformulando i propri indicatori in risposta al mutare delle condizioni.” Con il pil siamo ancora fermi ad 80 anni fa. I rischi dell’inerzia sono enormi. Abbiamo bisogno di inventare un nuovo modello economico. È tempo di ascoltare Kuznets e mandare il pil in pensione.