C’è un sogno americano per l’economia italiana, con il nuovo Trattato transatlantico di liberalizzazione commerciale tra Usa ed Ue? Il negoziato Ttip è segreto: se non fosse per qualche squarcio aperto da Ong e sindacati che trafugano e pubblicano stralci di testi, le trattative sono svolte dalla Commissione Ue per tutti gli Stati membri, a trasparenza zero o quasi. Il ministero per lo Sviluppo economico ha commissionato a Prometeia spa una prima valutazione d’impatto mirata all’Italia, alla base di molte notizie di stampa e interrogazioni parlamentari in attesa di risposta. Scorrendo dati e previsioni apprendiamo che i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell’arco di tre anni dall’entrata in vigore dell’accordo: il 2018, al più presto. L’Italia subisce dagli Stati uniti dazi abbastanza forti sui suoi prodotti moda (9%, su una media di dazi contro i prodotti italiani del 2,7%), agroalimentare e meccanica. È sugli standard, però, che gli Usa ci penalizzano di più: per la moda arriviamo al 25% con le barriere non tariffarie. Alcuni, come Barilla e Rana, hanno saltato gli ostacoli creando società ad hoc a stelle e strisce, per ricevere un trattamento nazionale. Per gli altri esportatori italiani il Ttip porterebbe, entro i tre anni considerati, da un guadagno pari a zero in uno scenario cauto, ad uno +0,5% di Pil in uno scenario ottimistico: 5,6 miliardi di euro e 30 mila posti di lavoro grazie a un +5% dell’export per il sistema moda, la meccanica per trasporti, un po’ meno da cibi e bevande e da uno scarso +2% per prodotti petroliferi, prodotti per costruzioni, beni di consumo e agricoltura.
Quali imprese italiane esportano davvero, e potrebbero, dunque, guadagnare da un accordo con gli Usa? L’Organizzazione mondiale del Commercio ci dice che le imprese italiane che esportano sono oltre 210mila, ma è la top ten che si porta a casa il 72% delle esportazioni nazionali. Secondo l’Ice, in tutto nel 2012 le esportazioni di beni e servizi dell’Italia sono cresciute in volume del 2,3%, leggermente al di sotto del commercio mondiale. La loro incidenza sul Pil ha sfiorato il 30% in virtù dell’austerity e della crisi dei consumi che hanno depresso il prodotto interno. L’Italia è riuscita a rosicchiare spazi di mercato internazionale contenendo i propri prezzi, senza generare domanda interna né nuova occupazione. Anzi: lo ha fatto spostando all’estero processi o attività dove costavano meno il lavoro o le tecnologie. Abbiamo acquistato, insomma, quote di mercato estero, perdendo lavoratori-consumatori nel mercato interno. Al momento, poi, proteggiamo con o senza tariffe ad hoc zucchero, carni, farmaci, chimica, alimentari. Basiamo molto del nostro marketing sulla qualità, e in effetti abbiamo regole in merito abbastanza stringenti che potrebbero essere, però, livellate agli standard statunitensi, molto più bassi nella maggioranza dei casi. Consideriamo forniture, appalti pubblici e finanza come asset strategici per il sistema-paese. Rivendichiamo servizi come la sanità, l’acqua, l’istruzione, l’energia, come beni comuni, e perciò indisponibili alla mercificazione. Ma il Ttip potrebbe rimettere tutto in discussione.
Il futuro italiano nel caso di liberalizzazioni complete per tutti i settori è ancora abbastanza nebuloso. Per i servizi, al momento solo gli audiovisivi sono fuori dalle possibili liberalizzazioni, di sanità tra Usa e Ue non si è ancora parlato, ma la tensione è alta soprattutto su energia, trasporti e finanza. Per la produzione di beni, secondo il pensiero prevalente tra imprese e istituzioni, non è obbligatorio che il tanto decantato Made in Italy, stante la normativa vigente, sia tutto italiano per ingredienti, pezzi di filiera, componenti, tantomeno lavoratori. L’aumento di export tricolore non si tradurrà, quindi, automaticamente, in buona produzione o occupazione nel paese. Anzi, come abbiamo visto nei dati Ice 2013, esso potrebbe aver bisogno di lavoro a condizioni pessime, oppure di rapide fughe all’estero. Nel caso più ottimistico delineato da Prometeia, soccomberebbero comunque il legname, la carta, poi la chimica farmaceutica e di consumo, la più penalizzata con 30 milioni di euro di perdite previste. Altri 10 milioni si perderebbero tra prodotti intermedi chimici, altri intermedi e agricoltura, e molte piccole e medie aziende potrebbero non sopravvivere allo choc. Con l’aumento di disponibilità sul mercato intero di carni, alimenti, cosmetici, prodotti di consumo e abbigliamento Usa a basso prezzo anche perché godono tuttora di poderosi sussidi pubblici, il consumatore italiano, a corto di reddito e di alternative, dovrebbe ripiegare sui prodotti e i servizi più a buon mercato, sacrificando quel poco di sicurezza alimentare, ambientale, sociale e di diritti che l’Europa ancora salvaguarda. Più che un sogno, l’accordo euro-americano per la maggioranza degli italiani sarebbe un incubo. Da cui dobbiamo svegliarci, e il più presto possibile.