Nel suo recente libro-intervista, Jean-Paul Fitoussi decostruisce pezzo per pezzo l’impianto teorico e gli effetti pratici legati all’adozione della “neolingua” dell’economia dominante, che appare incapace di interrogarsi sui propri limiti e di proporre ricette valide per l’economia e la società.
Sono trascorsi quasi tredici anni dallo scoppio della Grande Recessione, ma la ripresa sembra lontana. Le ricette di politica economica proposte sembrano inefficaci e fuori fuoco. La teoria economica, accusata dopo lo scoppio della crisi di non aver saputo anticipare la catastrofe, sembra in seria difficoltà di fronte agli effetti pratici delle politiche che caldeggia.
La difficoltà ad immaginare politiche alternative, e a definire un “possibile” all’interno di categorie teoriche valide, che abbiano come obiettivo il benessere dei popoli e la riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali all’interno di sistemi democratici maturi, è sostenuta dal deperimento e dallo svuotamento della lingua cui facciamo ricorso per descrivere la crisi, le sue cause e il funzionamento dei sistemi economici in cui viviamo. La “neolingua” dell’economia dominante pervade il nostro punto di vista e circoscrive le possibilità di espressione e di immaginazione di una critica costruttiva del reale. Questo lo scenario distopico, e al contempo brutalmente reale, da cui muove l’interessante intervista di Francesca Pierantozzi a Jean-Paul Fitoussi (La neolingua dell’economia. Ovvero come dire a un malato che è in buona salute, Einaudi 2019).
Parole quali “crisi di domanda”, “disoccupazione involontaria” o “prestatore di ultima istanza” – il libro è ricco di esempi concreti – sembrano essere sparite dal dibattito pubblico. O meglio, seppur limitatamente invocate in sede di dibattito pubblico, sembrano essere totalmente assenti dall’agenda politica e dalle ricette di politica economica adottate, soprattutto all’interno dell’Unione Europea.
La prospettiva da cui Fitoussi affronta il problema è duplice. Da un lato, sottolinea l’appiattimento del dibattito economico accademico incentrato su un unico impianto teorico che definisce neoclassico – sebbene sarebbe più corretto parlare in generale di impianto “marginalista”, ossia di Equilibrio Economico Generale (si veda F. Saraceno, La Scienza Inutile, LUISS University Press, 2018) – dall’altro, la conseguente pervasione del dibattitto pubblico e dell’agenda politica da parte di ricette di politica economica apertamente neoliberiste.
Il risultato in Europa è un paradosso: non riusciamo ad uscire dalla crisi, i Paesi della periferia soffrono livelli di disoccupazione e disuguaglianze economiche e sociali inaccettabili ma le risposte di politica economica che ci vengono proposte derivano da teorie che a malapena contemplano la possibilità che tali problemi si manifestino. Risultando, dunque, insufficienti o addirittura dannose.
La neolingua propone solo due narrazioni, quella della disoccupazione volontaria e della trickle-down economics (la c.d. economia dello “sgocciolamento”) seguendo il capitalismo anglosassone lungo la via neoclassica/neoliberista, oppure quella del rigorismo miope del “pareggio di bilancio” e del Fiscal Compact, ossia la via ordoliberista che ha plasmato l’architettura dell’Unione Monetaria Europea (UME) sin dalle sue origini. Per questa seconda via, secondo Fitoussi – che non distingue esplicitamente tra liberismo anglosassone e ordoliberismo pur descrivendone le sfumature in modo puntuale (ad esempio distinguendo tra disciplina della concorrenza in ambito europeo e US, pag. 55) – i Paesi dell’Eurozona hanno affrontato il processo di unificazione monetaria prima, e le conseguenze della crisi poi, seguendo una strategia di competizione al ribasso sul costo unitario del lavoro, con effetti distributivi esiziali e un declino persistente della quota salariale sul valore aggiunto.
Questo, all’interno di una dinamica di forte polarizzazione “centro-periferia” trainata dalla strategia neomercantilista di matrice tedesca, incentrata sugli eccessivi avanzi commerciali della Germania al costo di un eccessivo indebitamento dei Paesi della periferia. Al danno si è aggiunta la beffa dell’“austerità espansiva” come unica ricetta per ridurre l’indebitamento dei Paesi del sud – prima fra tutti la Grecia – che ha provocato una grave inibizione dei c.d. “stabilizzatori automatici” in chiave Keynesiana e la perversa ricerca della ripresa economica tramite il rigore nei conti pubblici e le c.d. “riforme strutturali”: ossia legando le mani alla politica industriale e alla politica fiscale in senso espansivo, mortificando il welfare e aumentando la precarizzazione del mercato del lavoro.
A questo punto del dialogo con Fitoussi, Pierantozzi incalza: che fare?
La risposta risiede, secondo l’autore, nello scardinamento della narrativa dominante della neolingua. Occorre uscire dalle maglie strette imposte da dicotomie quali elitismo o populismo, economia ortodossa o eterodossa, europeismo o sovranismo, e cercare di descrivere la realtà che ci circonda al di fuori di una narrazione obbligata e “dottrinaria”. Senza, tuttavia, cadere nel tranello della neutralità o della tecnocrazia e senza perdere, dunque, la ricchezza delle idee e della Politica, Fitoussi ribadisce “[…] sono di sinistra, senza se, senza ma e senza esitazione. Ciò che distingue le diverse teorie dell’economia è a mio avviso il peso che si attribuisce all’intervento dello Stato” (pag. 111). Ossia la necessità di poter esercitare una politica economica che abbia come obiettivo la tutela dei beni comuni, lo stimolo della domanda aggregata, il raggiungimento della piena occupazione e la riduzione dei livelli di disuguaglianza ormai inaccettabili per delle democrazie mature.
Tutto questo, Fitoussi non esista a prendere di petto il nocciolo della questione, deve necessariamente passare per una trasformazione dell’architettura istituzionale ed economica dell’UME, prigioniera di un gioco non-cooperativo tra Paesi membri da cui escono sconfitti principalmente i lavoratori e le democrazie.
* Questo articolo è stato pubblicato su L’Indice dei Libri del Mese, vol. XXXVII, n. 2, febbraio 2020