La rotta d’Italia. Ogni manovra finanziaria ed economica va subordinata all’obiettivo dell’occupazione. Per farlo, non bastano le (pur necessarie) politiche espansive, e un mercato che selezioni le imprese. Occorre salvare e recuperare il grosso delle forze manifatturiere
Dopo cinque anni di crisi e la prospettiva di almeno un altro anno di crisi, di cosa ha bisogno il mondo del lavoro? Le esigenze sono sia di natura economica e sociale sia democratica e politica. Il mondo del lavoro, infatti, sperimenta contemporaneamente:
A. Dal punto di vista economico e sociale: una grave crisi occupazionale; una frammentazione e corporativizzazione di coloro che sono ancora occupati, ricattati dalla paura della disoccupazione e costretti ad accettare condizioni di lavoro sempre peggiori; una diminuzione consistente del potere di acquisto dei salari e degli stipendi, con l’espandersi di aree di povertà anche tra chi lavora; un’erosione del welfare, sia locale sia nazionale, con una riduzione del reddito non monetario.
B. Dal punto di vista democratico e politico, la liquidazione progressiva della sua esistenza come soggetto collettivo, cui le forze politiche di governo devono fare riferimento, e come singolo lavoratore la sottrazione dei suoi diritti sociali e democratici nei luoghi di lavoro, come dimostra il pervicace rifiuto di consentire l’approvazione democratica delle piattaforme e delle ipotesi di contratto.
Che cosa occorrerebbe fare, quindi?
In primo luogo creare posti di lavoro e difendere quelli esistenti. Tale obiettivo è irraggiungibile senza una messa in discussione del cuore stesso dell’impianto economico e sociale attuale dell’Unione Europea. Da questo punto di vista il confronto tra la Bce e la Federal Reserve è illuminante. L’una con il solo compito della stabilità monetaria, l’altra con il duplice compito della stabilità monetaria e del ciclo economico; l’una prigioniera, con qualche sussulto di Draghi, di un’ortodossia monetarista cieca e stupida, l’altra con la scelta, totalmente non convenzionale e creativa, di legare i tassi d’interesse direttamente al livello di disoccupazione sino al raggiungimento di un livello di disoccupazione considerabile frizionale. Se quindi le forze politiche che si candidano a guidare il paese vogliono seriamente creare dei posti di lavoro, in numero sufficiente a riassorbire la disoccupazione giovanile in tre anni, l’unica strada è di subordinare ogni altra manovra economica e finanziaria a tale obiettivo. In concreto ciò significa muoversi su due terreni la domanda pubblica e una ripresa industriale. La domanda pubblica che può essere messa in moto in tempi brevi riguarda le grandi priorità dell’Italia: la difesa del territorio, la messa in sicurezza e l’adeguamento energetico dell’edilizia scolastica e degli edifici sedi di servizi pubblici, un piano energetico nazionale che affronti il problema della riconversione dell’edilizia residenziale, un piano per la mobilità pubblica nella direzione della sostenibilità ambientale e la realizzazione di un’infrastruttura di telecomunicazioni di ultima generazione. In questa prospettiva bisogna fare un bilancio della stagione delle privatizzazioni, anche tenendo conto dell’esperienza europea complessiva, e riconsiderare la necessità di una presenza pubblica in alcune aree dei servizi.
La ripresa industriale non è possibile sulla base dell’assunto che il mercato selezioni quelli in grado di sopravvivere; è evidente ormai che tale insieme d’imprese riguarda una piccola minoranza. Non si vuole sostenere che occorre salvare le altre a prescindere; al contrario si vuole sostenere che partendo dalla nostra tradizione manifatturiera si tratta di riqualificare la struttura rispetto ai nuovi modelli di manifattura: ibrida, a risparmio energetico, con modelli d’innovazione aperti, basata sulla cooperazione industriale intersettoriale e con una forza lavoro stabile e ad alta qualificazione. Ciò richiede una politica industriale che non può ridursi né al dogma della creazione dell’ambiente idoneo per la competizione, né alla selezione dei campioni settoriali che dovrebbero poi trainare il resto. L’obiettivo della politica industriale è recuperare il grosso delle forze manifatturiere, il che significa creare gli strumenti per sostenere un sentiero d’innovazione anche delle piccole e medie imprese. Disastrosa da questo punto di vista è stata la politica dei governi Berlusconi e Monti sul lavoro; l’idea che l’Italia fosse impedita nella creazione di nuovi posti di lavoro da un’esagerata protezione del lavoro ha semplicemente rimosso il vero problema che sta nell’incapacità del sistema produttivo di creare attività produttiva vendibile; a riprova di ciò le poche aziende italiane di successo sono nella maggior parte dei casi caratterizzate da occupazione stabile e buone condizioni di lavoro. La Fiat, per altro, dopo avere disintegrato ogni ragionevole parvenza di Relazioni Industriali non riesce a raggiungere livelli produttivi rilevanti. Le misure di disarticolazione del mercato del lavoro –precarizzazione – e delle Relazioni Industriali – liquidazione progressiva del contratto nazionale con incentivi fiscali – e di messa in mora dei contratti – l’articolo otto della legge 2011 n.148 – e messa in mora delle tutele contro i licenziamenti – nuova versione dell’art. 18 nella legge 214 del 2011 -vanno quindi cancellate.
Una seria politica industriale ha bisogno anche di ammortizzatori sociali che difendano il patrimonio di lavoro e industriale esistente per rendere credibile un processo d’innovazione che non sia la pura registrazione di chi comunque sopravvivrebbe alla crisi. Vanno quindi rinnovati e modificati gli ammortizzatori sociali lungo la linea seguita dalla Germania in questi anni. Infine, sul piano materiale, occorre ridare potere d’acquisto ai salari e agli stipendi. La strada maestra è quella del circolo virtuoso ripresa produttiva basata sull’innovazione e su alti standard lavorativi – crescita occupazionale e aumento delle retribuzioni. Il circolo virtuoso può essere sostenuto con adeguate manovre fiscali e d’incentivazione.
Una necessità vitale per il mondo del lavoro italiano è metter fine alla gestione autoritaria e totalmente antidemocratica della rappresentanza e della validazione della contrattazione. Naturalmente vi è una responsabilità primaria delle organizzazioni sindacali ma, nel momento in cui l’intero sistema delle Relazioni Industriali italiane è collassato – grazie alle iniziative convergenti della Fiat, della Cisl, della Uil e del ministro Sacconi – vi è anche una responsabilità politica e governativa da assolvere. Va risolto, per legge, il problema della rappresentanza delle organizzazioni sindacali e la validazione democratica delle loro iniziative negoziali. Non si tratta solo, come sembra prevalere tra le forze politiche, di regolare la rappresentanza, magari con la trasformazione in legge dell’accordo del 2011, ma di risolvere, per via legislativa, il problema di come si risolve un contenzioso contrattuale tra organizzazioni la cui rappresentatività sia stata accertata. L’unica strada democratica è il voto di tutti quelli che sono oggetto di una regolazione contrattuale, a qualsiasi livello ciò accada.