La rotta d’Italia passa per l’Europa. Il nuovo governo si dovrà scontrare con Berlino e Bruxelles, ma ci sono spazi di manovra e alleanze possibili per politiche espansive e limiti alla finanza. L’obiettivo è cambiare la rotta di un’Europa che va verso una grande depressione
La politica del prossimo governo italiano sarà fortemente condizionata dal quadro europeo. Pesa la recessione che potrebbe colpire l’insieme dell’eurozona anche nel 2013, dopo la caduta dell’economia nel 2012. Pesa l’imposizione di politiche di austerità, specie nei paesi della periferia europea, più colpita dalla crisi del debito pubblico, che hanno portato a un circolo vizioso di recessione, peggioramento delle condizioni finanziarie e del rapporto debito/Pil, imposizione di ulteriori misure di austerità. Pesa un insieme di trattati e norme che ha istituzionalizzato una visione neoliberista dell’integrazione europea – la libertà di movimento dei capitali, delle merci e delle imprese innanzi tutto – e ha reso impossibile prendere le misure economiche necessarie per affrontare la crisi attuale. Dal Trattato di Maastricht del 1992, al Patto di stabilità e crescita, fino alle misure di governance economica del “six pack” e del “two pack”, e al Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance che comprende il “Fiscal compact”, votato nel 2012, ci sono vent’anni di decisioni che riducono l’intervento pubblico e le possibilità di manovre fiscali per rilanciare l’economia, che pongono limiti alla spesa pubblica e alla politica della domanda, spingono per minori imposte, premono per ridurre le tutele del lavoro e i salari; allo stesso tempo le politiche europee hanno liberalizzato l’azione della finanza, ridotto le regole per le imprese, spinto alla privatizzazione di attività pubbliche. Tutte queste misure hanno sottratto autonomia alle politiche nazionali senza introdurre nuovi meccanismi di controllo democratico sulle politiche economiche a livello europeo.
L’Italia è stata particolarmente colpita da questo contesto europeo. Con il governo Berlusconi, la debolezza politica ed economica del paese in Europa ha lasciato mano libera alla gestione della crisi da parte della coppia Merkel-Sarkozy; l’Italia non ha saputo condizionare le politiche europee e si è trovata esposta agli attacchi speculativi contro il debito pubblico iniziati nell’estate 2011. Gli stessi poteri europei – la Banca centrale europea (Bce), la Commissione, il governo della Germania – hanno favorito l’arrivo del “governo tecnico” di Mario Monti con le sue politiche di austerità. Oggi vogliono una continuazione dell’”agenda Monti” che aggraverebbe i problemi del paese.
Si tratta di una rotta sbagliata per l’Europa e disastrosa per l’Italia. L’abbiamo argomentato con la discussione sulla “rotta d’Europa” aperta su sbilanciamoci.info da Rossana Rossanda nell’estate 2011, con una serie di ebook[1] e di incontri internazionali – dal Parlamento europeo a Firenze 10+10 – che hanno portato a una larga convergenza tra reti di esperti e di movimenti nelle valutazioni su come far cambiare rotta all’Europa.[2]
Le proposte principali – riassunte nel primo documento della Rete europea degli economisti progressisti – chiedono di rovesciare le politiche di austerità e cancellare le pericolose limitazioni imposte dal “fiscal compact”; di ridurre le diseguaglianze, tassare la ricchezza e tutelare il lavoro; di fare della Banca Centrale Europea un prestatore di ultima istanza per il debito pubblico, introducendo una responsabilità comune dell’Eurozona; di ridimensionare la finanza, avviare una transizione ecologica ed estendere la democrazia a tutti i livelli in Europa.
Come possono entrare queste elaborazioni e queste proposte alternative nel dibattito sulle elezioni in Italia? Innanzi tutto devono fornire il quadro di riferimento entro il quale collocare il dibattito elettorale. L’”agenda Monti” non è una politica obbligata, ci sono alternative anche all’interno delle regole attuali dell’Unione monetaria e i vincoli europei possono essere modificati dall’azione della politica. Inoltre, le alternative discusse a scala europea sono essenziali per sostenere gli spazi per politiche di cambiamento in Italia.
A scala europea negli ultimi mesi sono emerse alcune novità che ridefiniscono i termini del dibattito su come affrontare la crisi.
La prima novità è venuta nientemeno che dal Fondo monetario, che quest’anno ha riconosciuto quanto fosse sbagliata l’imposizione di politiche di austerità fondata sull’idea (ultraliberista) che una riduzione di spesa pubblica non abbia effetti negativi rilevanti sul reddito. In una serie di documenti ufficiali, l’Fmi spiega i clamorosi errori di previsione compiuti dal Fondo, dalla Bce e da tutti gli organismi di previsione economica – un quadro è nell’articolo di Mario Pianta “Economia europea: sono pessime quelle previsioni” (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Economia-europea-sono-pessime-quelle-previsioni-16018) – sulla base della sottostima degli effetti negativi che la caduta della domanda ha sul reddito: una riscoperta, tardiva e limitata, della lezione keynesiana. Questa svolta dell’Fmi fa svanire una pietra angolare della costruzione delle politiche di austerità d’Europa.
Di fronte alla recessione del 2012-2013 è sempre più urgente un ritorno a politiche europee di rilancio della domanda, condizione indispensabile per uscire dalla crisi. Si tratta di attivare nuovi strumenti europei per sostenere l’economia e avviarla verso un sentiero di crescita sostenibile, con un ampliamento del bilancio dell’Unione, il varo di eurobond destinati a finanziare progetti di investimenti per l’economia verde e un ruolo maggiore della Banca europed degli investimenti. Una politica macroeconomia espansiva a livello dell’Unione potrebbe allentare la morsa della recessione che colpisce soprattutto i paesi della periferia d’Europa, accelerando il loro risanamento finanziario.
È importante inoltre aumentare i margini di manovra per le politiche di spesa a livello nazionale. Su questo versante il “Fiscal compact” introdotto nel 2012 rappresenta una decisione di particolare gravità perché impone il limite dello 0,5% del Pil al “deficit strutturale” dei conti pubblici (il deficit depurato dagli effetti del ciclo, anche se non c’è alcuna definizione rigorosa di come esso potrà essere calcolato); in più prospetta il rimborso in vent’anni dell’eccesso di debito pubblico rispetto al 60% del Pil. La riduzione richiesta del peso del debito sul Pil può avvenire attraverso una crescita dell’economia (aumentando il denominatore del rapporto); in assenza di tale prospettiva, l’aggiustamento imporrebbe una riduzione di spesa pubblica dell’ordine di 50 miliardi di euro l’anno: un ammontare insostenibile, tale da provocare un aggravamento della recessione. Le modalità specifiche dell’applicazione di queste misure ai diversi paesi sono ancora non ben definite e non potranno che risultare dalle tensioni interne ai paesi in difficoltà, e dall’inevitabile conflitto tra paesi della periferia e del centro dell’Europa. La possibilità di allentare le politiche di austerità si gioca sul terreno di questo scontro tra visioni diverse sul funzionamento dell’economia e sulle priorità per l’azione dei governi.
In questa direzione va anche l’iniziativa promossa dalle socialdemocrazie europee per produrre un “Independent Annual Growth Survey” pubblicato a novembre 2012 da Ofce francese, ICLM danese e IMK tedesco; il rapporto mostra che senza modifiche dei trattati europei è possibile un percorso di aggiustamento fiscale che distribuisca la riduzione di deficit e debito tra 2013 e 2017; questa manovra farebbe crescere l’area euro dello 0,7% l’anno in più in questo periodo, accelerando la fine della recessione (www.socialistsanddemocrats.eu/gpes/media3/documents/4121_EN_iAGS_Report_version finale.pdf).
La seconda novità è venuta da Mario Draghi nell’estate scorsa, quando ha dichiarato per la prima volta che la Bce salverà l’euro “con ogni mezzo necessario”. Insieme ai nuovi strumenti d’intervento introdotti – il Meccanismo europeo di stabilità (il fondo “salva-stati”) e il piano per l’acquisto di titoli pubblici da parte della Bce (lo “scudo anti-spread”) – quest’impegno ufficiale di Draghi ha attenuato negli ultimi mesi del 2012 la speculazione contro il debito pubblico dei paesi della periferia europea, anche se il sistema finanziario resta fragilissimo e un’ondata speculativa potrebbe ripartire per effetto di sviluppi imprevedibili. L’introduzione di una modesta tassa sulle transazioni finanziarie da parte di un gruppo di paesi europei (Londra esclusa) è stato un primo piccolo passo verso la limitazione della speculazione.
Ma non è da escludere che un successo del centro-sinistra alle elezioni in Italia possa aprire un nuovo attacco speculativo contro il debito del paese. Sarebbe un test decisivo della determinazione della Bce di proteggere un paese membro dell’euro, e l’Italia è un paese “troppo grande per fallire” ma anche troppo grande per essere ridotto a una condizione subalterna, quasi coloniale, come è successo alla Grecia con l’intervento della “troika”. Tuttavia, c’è il rischio che un’Italia in difficoltà venga spinta a far ricorso ai fondi europei d’intervento, che prevedono esplicite condizionalità in termini di riduzioni di spesa, privatizzazioni, etc. Un attacco speculativo potrebbe così portare a misure opposte alle politiche di cambiamento scelte dagli elettori, con un drammatico svuotamento della democrazia: quasi un colpo di stato della finanza (e dell’Europa) contro un paese in difficoltà, una riedizione della vicenda greca. La politica del nuovo governo italiano dovrà così spingere per maggiori responsabilità della Bce e delle autorità europee nella stabilizzazione finanziaria e nelle repressione della speculazione, allargando gli spazi per l’azione politica.
La terza novità riguarda proprio la Grecia, ed è la decisione della Germania di escludere esplicitamente la possibilità di un’uscita della Grecia dall’euro. Dopo anni di risposte incerte da parte di Berlino su come affrontare la crisi, questa posizione – che riflette l’ormai indiscusso potere della Germania – ha favorito una serie di accordi per finanziamenti alla Grecia condizionati a tagli di spesa e per il riacquisto di una parte del debito pubblico del paese a prezzi svalutati. A questo punto – anche per la riduzione della speculazione degli ultimi mesi – lo scontro tra centro e periferia riguarda oggi i termini in cui i paesi in difficoltà stanno dentro l’euro – quanta austerità, quanti trasferimenti, quanti costi e benefici per la finanza, quanti sostegni alla ripresa produttiva – anziché la questione se dall’euro se ne debbano andare. Con la decisione di creare l’Unione bancaria, ci può essere uno spazio per ridefinire le regole dell’area euro in termini meno punitivi per i paesi fragili e più restrittivi per la finanza. In questo contesto sarebbe essenziale che in Europa il braccio di ferro non veda i singola paesi in difficoltà misurarsi da soli con le istituzioni europee, ma si costruisca uno schieramento compatto della periferia europea (con in più la Francia socialista) che sappia rinegoziare le regole e le priorità europee con il gruppo di paesi intorno alla Germania. Senza una riscrittura delle regole e qualche forma di responsabilità comune per il debito pubblico, la fragilità dell’Unione monetaria è destinata a restare, e resteranno – in caso di aggravamento della crisi – le spinte per uscire dall’euro se le condizioni economiche e sociali si facessero insostenibili.
La quarta novità la troviamo sul piano degli equilibri politici, e qui non sono pochi i segnali negativi. La vittoria di François Hollande non ha mutato in modo significativo gli equilibri in Europa e la sua promessa di insistere sulla crescita anziché sull’austerità non ha prodotto risultati. Le elezioni in Olanda hanno faticosamente portato nel novembre scorso a un governo di coalizione tra liberali e socialdemocratici con il liberale Mark Rutte nuovamente primo ministro, con un approccio molto vicino al governo di Berlino. In Germania le elezioni dell’autunno 2013 si preparano con una forte popolarità della cancelliera Angela Merkel, una caduta dei consensi al Partito liberale ora al governo, e un profilo incerto e debole dell’opposizione socialdemocratica che, insieme ai verdi, non presenta un’alternativa riconoscibile rispetto alle attuali politiche del paese. Intanto la Gran Bretagna del governo conservatore di David Cameron si allontana sempre più dall’Europa e crescono le spinte per un referendum sulla presenza di Londra nell’Unione. La frammentazione dell’Europa si moltiplica ora anche a livello subnazionale, con le crescenti pressioni per l’indipendenza in Scozia e in Catalogna.
Il governo che uscirà dalle elezioni di febbraio dovrà aver ben presente questo quadro continentale, la necessità di far “cambiare rotta” anche all’Europa, l’esigenza di destinare grandi energie ai rapporti a scala europea. Per avere possibilità di successo, la partita sul cambiamento in Italia dev’essere giocata con uguale impegno a scala europea, con un forte investimento politico e diplomatico, con una forte richiesta di democratizzazione delle decisioni, di ridimensionamento del potere ottenuto dalla Germania, con la costruzione di alleanze tra i paesi della periferia europea.
In questo percorso, la politica italiana non è sola. Ci sono state le mobilitazioni dei movimenti, finora soprattutto a scala nazionale. C’è una crescente consapevolezza dell’opinione pubblica europea, mostrata dai sondaggi, sulla necessità di politiche pubbliche per uscire dalla crisi, di far pagare la finanza e tutelare le condizioni sociali. E c’è stato il primo sciopero europeo, il 14 novembre 2012, convocato dalla Confederazione europea dei sindacati contro le politiche di austerità dell’Europa, che ha visto il sindacato tornare sulla scena. C’è infine la scadenza elettorale del 2014, un anno dopo quella italiano, per le elezioni del Parlamento europeo, l’unica istituzione democratica dell’Unione europea.