Nell’Olanda dell’ortodossia liberista, il Partito socialista (di sinistra) potrebbe vincere le elezioni del 12 settembre con una campagna anti-austerità. Se c’è una politica alternativa, la democrazia può funzionare e le elezioni si possono vincere
Nessuno in Italia ha mai sentito nominare Emile Roemer. È oggi il politico più popolare d’Olanda, capo del Partito socialista (di sinistra) che secondo i sondaggi potrebbe diventare il primo partito del paese nelle elezioni del 12 settembre prossimo. Secondo i sondaggi di Maurice de Hond, i socialisti potrebbero passare da 15 a 34 seggi, i liberali del primo ministro Mark Rutte scenderebbero a 32, la destra sarebbe in calo. Per governare, serve una maggioranza di 76 seggi; i socialisti potrebbero allearsi con il più moderato partito laburista e con la GreenLeft; i liberali hanno un alleato storico nei democristiani, ma tutti questi partiti sono a terra nei sondaggi. Una parte importante dell’elettorato laburista e verde è deciso a scegliere i socialisti, ma i sondaggi suggeriscono che potrebbero raccogliere voti anche a destra. Il perché di questo possibile successo? La politica anti-austerità proposta dai socialisti, con una ferma opposizione ai 13 miliardi di euro di tagli al bilancio imposti dal governo per portare il deficit sotto il 3% del Pil, come chiesto dal “Fiscal compact” deciso dall’Unione europea.
Al ritorno dalle vacanze potremmo avere una nuova lezione sul valore della democrazia e sulla forza elettorale che può avere un’alternativa alla crisi e alle politiche neoliberiste. Non verrebbe più, come nel giugno scorso, dal paese più in difficoltà d’Europa, la Grecia, dove la sinistra radicale di Syriza, guidata dal giovane Alexis Tsipras, è arrivata a un passo dalla maggioranza. Questa volta verrebbe da uno dei pilastri dell’ortodossia neoliberista, l’Olanda, il più fedele alleato di Berlino, il paese che per primo era andato alle elezioni dopo lo scoppio della crisi e – incredibilmente – aveva scelto la destra, il liberismo di Mark Rutte e l’alleanza con la destra xenofoba e populista, il Partito della libertà di Geert Wilders, proprio quando il crollo della finanza e la recessione del 2009 mostravano a tutti i disastri del liberismo. Oggi in Olanda tutto sembra cambiare. Il voto a sinistra, il possibile consolidamento di un blocco sociale post-liberista vengono dalla semplice necessità di difendere i propri interessi. Ben diverso dalla spinta al cambiamento esplosa ad Atene, nata dalla disperazione per la tragedia greca. A rompere con il passato sarebbero i cittadini di un paese appena scalfito dalla crisi, con un basso debito pubblico (ma con un altissimo debito privato), che ha lungamente praticato politiche liberiste di ogni tipo (mercato del lavoro flessibile, part time diffusissimo, finanziarizzazione dell’economia), ma che continua ad affidarsi al welfare state.
In comune, Atene e l’Aia hanno la presenza di forze politiche emergenti che sanno andare oltre gli steccati della sinistra (e le sue divisioni), sanno parlare a tutti i cittadini, sanno presentare un’alternativa proprio quando i poteri forti – nazionali ed europei – insistono sul “non c’è alternativa”. Mantengono l’Europa come orizzonte, non si perdono in improbabili discussioni sull’uscita dall’euro (alimentate in questi giorni da un nuovo affondo dell’Economist), ma non si piegano ai ricatti del “Memorandum” greco o all’austerità imposta a tutti dal “Fiscal compact” che porterebbe l’Europa a una grande depressione. Riaprono una pratica della democrazia – a scala nazionale ed europea – proprio quando i nuovi trattati europei, come ha documentato l’articolo di Agenor pubblicato anche sul manifesto dell’8 agosto, tendono a soffocarla.
È un percorso non facile da realizzare. In Germania, Spd e verdi (con molte divisioni) hanno accettato un compromesso con il governo di Angela Merkel su “Fiscal compact” e politiche di austerità, mentre la Linke appare isolata e divisa. In Francia il “Fiscal compact” è stato accettato dal governo socialista di François Hollande, e andrà presto in Parlamento, dove non sarà votato da alcuni parlamentari verdi che fanno parte della maggioranza, oltre che dalla sinistra radicale (all’opposizione), che chiede un referendum sulla sua approvazione, e voci critiche si levano anche dall’interno del Partito socialista. A Parigi il dibattito è particolarmente acceso e le ragioni del rifiuto del “Fiscal compact” sono state efficacemente presentate nel volumetto degli Economisti sgomenti francesi “L’Europe mal-traité” (una sintesi è stata pubblicata anche dal manifesto del 10 agosto). Su altri fronti, tuttavia, François Hollande sta sperimentando la possibilità di cambiare segno alle politiche di austerità e nei primi mesi di governo ha ridotto gli stipendi ai ministri, aumentato (di assai poco) il salario minimo, limitato i tagli alle pensioni imposti da Sarkozy, assunto 8.000 persone nella scuola, riducendo di altrettanti i dipendenti della Difesa e delle forze armate, portato al 75% l’aliquota fiscale su chi guadagna più di un milione di euro, spinto le imprese a limitare i licenziamenti causati dalla crisi, messo sotto controllo gli affitti delle abitazioni. Piccoli passi, ma che mostrano come politiche redistributive, contro le disuguaglianze e a difesa del lavoro siano possibili anche in un quadro di “ortodossia” economica.
E l’Italia? Non può non colpire la distanza della politica italiana da tutti questi sviluppi. Delle misure già introdotte da François Hollande in Francia potrebbe non esserci nulla nel programma del centro-sinistra italiano. Il “Fiscal compact” e il pareggio di bilancio in Costituzione sono stati votati senza alcun dibattito, il governo Monti presenta la sua politica liberista come l’“ultima spiaggia” del paese e una parte del Partito democratico propone di farne il programma elettorale del centro-sinistra. Ma quella politica non riesce a ridurre la speculazione contro l’Italia, moltiplica gli interessi che dobbiamo pagare sul debito, fa cadere il Pil del 2,5%, lascia l’industria con una produzione di un quarto inferiore all’inizio della crisi, porta la disoccupazione al 9% e quella dei giovani (sotto i 25 anni) al 35%. Eppure, la continuità del “Montismo” sembra la via obbligata per centro-destra e centro-sinistra anche dopo le prossime elezioni, come ha efficacemente spiegato Marco Revelli sul manifesto del 7 agosto.
La politica italiana sembra incapace di discutere di chi paga il conto, di difendere gli interessi di nove italiani su dieci – i “perdenti” in questa lunga crisi –, di aggregare un blocco sociale che vada oltre confuse reazioni populiste, di ricostruire una politica fondata sulla democrazia (e su questi aspetti la risposta di Paolo Ferrero sul manifesto del 10 agosto è ancora troppo legata a logiche di schieramento). Si potrebbe cominciare dalle lezioni che ci vengono dall’Europa – Francia, Grecia e Olanda – e costruire un’altra politica a partire dalle alternative che sono possibili: limitare la finanza, tassare la ricchezza, rilanciare produzioni sostenibili, tutelare il lavoro. Dopo le proposte di “Un’altra strada per l’Europa” al Parlamento europeo a giugno e a Roma lo scorso luglio, la “Contro-Cernobbio” di Sbilanciamoci!, che si terrà dal 7 al 9 settembre alla Comunità di Capodarco (vicino a Fermo, info su www.sbilanciamoci.org), potrebbe essere l’occasione per una discussione sulle elezioni italiane degna dell’Europa.