“Non esistono soluzioni facili e immediate alla crisi”. Nella relazione della Banca dei regolamenti internazionali, una conferma del fatto che la crisi è strutturale e che non ci sono margini nel sistema per riattivare la crescita. È per questo che l’unica strada è cambiare strada
“Chi spera in una soluzione facile e immediata continuerà a essere deluso: soluzioni di questo tipo non esistono.” L’affermazione è della Banca dei Regolamenti Internazionali (82a Relazione annuale, 24 giugno 2012, p. 8), istituzione internazionale il cui compito è di promuovere la collaborazione tra le banche centrali.
L’interpretazione delle Bri è di particolare interesse poiché scaturisce da un’analisi attenta e convincente del processo in atto. Il punto cruciale del quadro interpretativo è individuato – in modo non inedito – nel fatto che la crisi sia una crisi di indebitamente generalizzato e che il processo in atto e le prospettive future derivano dai comportamenti “normali” dei singoli soggetti indotti a privilegiare a ricostituire il proprio equilibrio patrimoniale. Non è certo una novità che le famiglie siano indebitate e siano costrette a risparmiare per rientrare dai loro debiti; che le imprese utilizzino i loro profitti per ridurre l’indebitamento piuttosto che finanziare nuovi investimenti; che il settore pubblico sia sotto pressione per realizzare avanzi correnti e ridurre il debito accumulato nel passato; che le banche e le altre istituzioni finanziarie, appesantite da titoli tossici e dalla perdita di valore di crediti e titoli, siano indotte a utilizzare i redditi correnti per ammortizzare le perdite prima di pensare ad espandere il credito all’economia. Il fatto che tutti i settori dell’economia registrino la medesima situazione segnala che non vi sono margini all’interno del sistema in grado di riattivare la crescita; la crisi è sistemica, di un intero sistema economico e sociale dai carenti meccanismi autoregolatori.
Non si tratta certamente di una novità, se non per il fatto che proviene da un’autorevole istituzione mainstream. Non dovrebbe sorprendere nemmeno l’implicazione che “lentezza del processo di deleveraging in tutti i maggiori settori dell’attività economica contribuisce a spiegare perché la ripresa nelle economie avanzate sia stata così debole”. È evidente che “i tentativi di aggiustamento di ciascun gruppo peggiorano la posizione degli altri” dato che “il settore finanziario esercita pressioni sui governi e rallenta la riduzione dell’indebitamento da parte di famiglie e imprese. I governi, a causa del deterioramento della loro affidabilità creditizia e dell’esigenza di risanare conti pubblici, stanno minando la capacità di recupero degli altri settori. Infine, il processo di deleveraging di famiglie e imprese incide negativamente sulla ripresa di governi e banche”. Una crisi da indebitamento generalizzato comporta inevitabilmente una compressione generalizzata della domanda e quindi dei redditi creando una situazione paradossale in cui l’obiettivo prioritario di ridurre l’indebitamento comporta una compressione dei redditi che impedisce la riduzione del debito. Un’osservazione che, ampiamente sviluppata per il debito pubblico, vale per tutti i settori generando non uno ma “molteplici circoli viziosi.” Un messaggio più chiaro di così non si potrebbe avere per una classe dirigente europea che, incapace di vedere gli effetti complessivi del meccanismo in atto, si trincera dietro a giudizi moralistici (talvolta fondati) sulla correttezza dei comportamenti altrui e propone (in maniera infondata) come prioritario un intervento per mettere ordina in casa propria.
Le difficoltà non si esauriscono qui, poiché nonostante quanto è successo vi è la preoccupazione che le principali banche continuino “ad accrescere la leva finanziaria” (espandendo le operazioni in derivati, ovvero le loro posizioni speculative) “senza prestare la debita attenzione alle conseguenze di un possibile fallimento”. Pare che stiano “gradualmente riassumendo il profilo di elevata rischiosità che le caratterizzava prima della crisi”, ovviamente sempre nella convinzione che, qualsiasi cosa succeda, sarà il settore pubblico a farsi carico della loro insolvenza.
Dall’analisi presentata, tre aspetti dovrebbero balzare immediatamente all’attenzione di qualsiasi autorità di politica economica.
a. i tempi pericolosamente lunghi del riaggiustamento degli squilibri patrimoniali che, prodottisi in un ampio arco di tempo, possono essere ridimensionati solo in tempi altrettanto lunghi;
b. la ristrutturazione dei diversi indebitamenti si sta realizzando in un contesto fortemente recessivo e quindi non senza pesanti conseguenze per i livelli di occupazione e per le condizioni di lavoro (salari e diritti) con la prospettiva di un lungo processo di deterioramento delle relazioni sociali e una prevedibile usura dello stato di welfare. L’effetto/obiettivo è la passivizzazione dei singoli rendendoli disponibili ad accettare come “naturali” sia la compressione dei redditi e dei diritti che le crescenti disuguaglianze fra soggetti, ceti, territori.
c. il processo di aggiustamento finanziario non è soggetto ad alcun efficace controllo, non essendo previsto alcun adeguato intervento che garantisca che i pesanti sacrifici finora imposti non siano annullati da comportamenti speculativi (in atto) delle banche.
Il lungo adattamento della società è dominato dalle strategie delle istituzioni finanziarie come dimostrerebbe la conclusione (sempre della Bri) che solo dopo aver “ripristinata la normalità con un sistema monetario e bancario unificato, i leader europei disporranno del tempo necessario per completare la costruzione dell’assetto istituzionale più ampio di cui l’unione monetaria ha bisogno”. Non prima, non durante, ma a giochi fatti.
È un’analisi che, anche se involontariamente, giustifica ampiamente le proposte di lavoro del controvertice “un’altra strada per l’Europa” tenuto a Bruxelles il 28 giugno scorso che, per quanto possano sembrare solo dei segnali di tendenza, si muovono nella direzione giusta:
a. i punti relativi alla necessità di affrontare l’emergenza finanziaria e all’opportunità di sottoporre a regolazione l’azione delle banche esprimono l’esigenza di difendere la società dai preoccupanti processi di riaggiustamento finanziario in atto. In questa ottica è evidente l’esigenza di una ristrutturazione istituzionale del sistema bancario europeo per limitarne l’assunzione di rischi speculativi e per favorire la destinazione dei suoi fondi alla crescita;
b. la critica alla politica dell’“austerità” e il rilancio di uno sviluppo di qualità si contrappone nettamente alla visione di politica economica che sta orientando la realtà economica e sociale europea. La tensione di natura “costituzionale” generata dagli interventi apparentemente “tecnici e neutrali” dei processi di ristrutturazione in atto rende necessaria la definizione di una diversa politica economica in grado di evitare lo sbocco perseguito di asservire la società all’economia. L’esigenza di garantire un effettivo confronto sui possibili assetti economici e sociali alternativi quale esito della gestione di questa crisi rende concreto l’esercizio di quella democrazia di qualità posta come quinto punto nelle conclusioni del controvertice.
c. la ridefinizione della politica economica europea (e nazionale) è urgente affinché la società non sia a lungo bloccata dal contenimento della domanda. Ma una situazione di prolungato contenimento della produzione per il mercato dovrebbe costituire una sfida per le molte organizzazioni e movimenti che, criticando i modelli di produzione e consumo correnti, affermano la possibilità di alternative in grado di mantenere (se non accrescere) il benessere sociale nonostante il calo del Pil.
d. non va infine sottovalutato l’aver estesa la consapevolezza che queste questioni non sono questioni nazionali ma europee; che l’oggetto delle polemiche sui ritardi di una efficace politica europea non è da attribuire a un singolo paese, ma a un orientamento “conservatore” presente all’interno di tutti i paesi, anche se al momento espresso con maggior forza dal gruppo dirigente tedesco.
La scommessa di porre la questione di quale rotta indicare all’Europa sembra aver pagato, anche se, come del resto era prevedibile, sono emerse tutte le difficoltà di una elaborazione democratica che coniuga interventi a livello sovranazionale con la costruzione di novità economiche e sociali a livello locale. La capacità di tenere assieme queste due dimensioni anche attraverso una narrazione responsabile del nostro futuro possibile è la condizione per non accettare passivamente quello sfilacciamento della società che sarebbe inevitabile se dovesse prevalere, in una forma certamente più aggressiva, questo capitalismo finanziario.