Con un titolo provocatorio, parole che le ex sinistre italiane non hanno il coraggio di pronunciare, Luciano Gallino ha chiamato il suo ultimo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, pp. 212, euro 18). Quante volte sentiamo dire «la lotta di classe» non c’è più? Non esistono più le classi sociali? Non ci sono più una destra e una sinistra? Dov’è oggi l’operaio? A che servono i sindacati? Come si può pretendere oggi un posto fisso per la vita? E poi, che noia il posto fisso!». Eccetera. E da queste asseverazioni parte Gallino nel dare al suo lavoro la forma di un’ampia intervista alla sociologa Paola Borgna, definendole come sciocchezze, ideologia, falsa coscienza della società. Mai infatti il capitale ha messo al lavoro tanti milioni di persone come oggi con l’estensione dell’economia mondializzata. Mai come oggi l’innovazione tecnologica ha permesso di ridurre il lavoro degli uomini su ogni segmento del produre, aumentandone la produttività, non già per liberare il lavoratore dalla fatica ma per ridurne il costo al produttore. Mai la tecnologia della comunicazione gli ha permesso come ora di conoscere in tempo reale dove si trovano le forze di lavoro il cui costo è più basso. Mai come ora, organizzate in megafusioni e saltando da investimenti in produzione a quelli sulla finanza e viceversa, i mezzi di cui dispone gli permettono di spostarsi dove la forza di lavoro costa meno, lasciando a terra la manodopera di cui aveva bisogno per esempio in Europa, dove i lavoratori avevano conquistato da un secolo salari e diritti maggiori.
Si è allargato quindi, in quantità e qualità, il conflitto di interessi fra capitale e lavoro, i capitali concorrono (ma è più elegante dire «competono») nel ridurne il costo, mentre i vecchi e nuovi lavoratori, non ancora o non più organizzati, si fanno la guerra, concorrendo gli uni contro gli altri più o meno consapevolmente al ribasso, per conquistare un posto. Dunque le classi non solo ci sono ancora, ma l’offerta di manodopera e lo sventagliarsi delle retribuzioni, che trent’anni fa dispiegavano su scalini di circa trenta grandezze diverse (ed era già un bel salto), oggi avviene in grandezze da 1 a 300: in altre parole occorrono trecento anni di lavoro a una operia o cassiera dei supermercati per guadagnare quello che il suo direttore generale guadagna in un anno. Qualcuno ricorderà che negli anni Ottanta i padroni italiani sostenevano che il costo del lavoro era diventato una voce minima nell’insieme dei costi di bilancio, ma oggi è su di esso, sia pur calato in assoluto, che esercitano la maggiore pressione possibile. Nella lotta di classe sono cambiati l’attaccante e chi si difende; l’attaccante che, pur in inferiorità di mezzi, era il salariato oggi si difende sia dal padrone sia dallo stato, che legifera a favore del padrone – Monti ed Elsa Fornero ne sono figure da manuale. Adesso le parti sono invertite. All’attacco è il capitale e il lavoro è sotto botta.
Divisi e senza partito
Dominio dell’economia
Con la stessa chiarezza lega le politiche di austerità alla loro natura di classe, mentre le istituzioni, il ceto politico tutto e la presidenza della Repubblica si affanna a descriverla come mera tecnica per rimettere i conti a posto, e indica nella flessibilità del lavoro il fine effettivo cui mira il padronato, che spera di mantenere a tempo indeterminato soltanto quella parte di manodopera che gli garantisce un certo know how, facendo ruotare tutto il resto nel minor tempo e con le minori garanzie possibili. Ma con questo viene meno la possibilità per il lavoratore dipendente di programmare la propria esistenza che viene meno, chiudendo il cerchio sotto il profilo della rappresentanza politica: più si dilata la distanza di reddito fra le classi più sale la sfiducia nella capacità e nella stessa volontà della sfera pubblica di fungere da compensatore o moderatore della tendenza sfavorevole alle classi subalterne. Più si è costretti a constatare che non siamo «nella stessa barca», nel senso che i più possono esserne sbattuti fuori a ogni momento, meno i partiti, specie quelli che si dicono di sinistra, appaiono credibili. Ma meno la sfera politica è credibile, più la cosiddetta «economia» diventa dominante.
Gallino, il cui penultimo libro era, se non erro, Finanzcapitalismo e delineava il contesto in cui il capitale si muove oggi, chiede dunque energicamente che i concetti vengano rimessi al loro posto, che la lotta di classe si veda nei suoi attuali protagonismi e forme, che si sono ribaltate dal 1848 a ieri l’altro, e che si rilanci una battaglia nella sua direzione originaria cominciando con il rimettere sui piedi l’immagine dei rapporti di lavoro.
Perché e come ne sia avvenuto il rovesciamento sarebbe lungo dire. Ma al di là della lucidità e crudeltà intrinseca dei detentori di capitale, che non hanno né funzioni né doveri di beneficenza né di pubblica utilità, sul mutamento di cultura avvenuto nella seconda metà del Novecento ci sarebbe molto da dire. In primo luogo sullo stato di incertezza e confusione delle organizzazioni sindacali e politiche sotto l’urto concomitante della ripresa neoliberista, da Thatcher e Reagan in poi, e della crisi verticale dei socialismi reali. Ma anche negli errori di analisi nostri, delle sinistre radicali, nel corso degli anni Settanta – incapacità di misurare esattamente il rapporto reale di forze, opponendo il precariato ai presunti «garantiti», e moltiplicando negli anni seguenti le categorie interpretative della crisi del movimento operaio invece che guardarla per quello che realmente era. Qualcosa di analogo, a mio avviso, ripetiamo oggi nel convulso bisogno di liberarci dai parametri della lotta di classe attraverso la sottrazione dei «beni comuni» alla dialettica delle classi, causa giusta ma insufficiente, o al rinvio della sussistenza della forza lavoro a un reddito di cittadinanza messo sulle spalle della finanza pubblica. Tutto utile ma tutto esterno alle vicissitudini del modo di produzione e di quella lotta di classe della quale il lavoro di Luciano Gallino non cessa di rappresentarci lo spessore e la violenza.