Controllare dal basso le attività delle aziende è difficile ma non impossibile. Il modello tedesco della co-gestione è un buon esempio di democrazia economica
Con la crisi europea i media hanno riscoperto il “modello tedesco” e lo propongono costantemente come esemplare per il successo economico delle nazioni e per uscire dalla crisi. Ma da sessanta anni, precisamente dal 1951, il modello tedesco è basato anche sulla co-determinazione, cioè sulla democrazia industriale: tuttavia questo elemento fondamentale paradossalmente non viene quasi mai ricordato dai media. La legge tedesca della Mitbestimmung impone infatti che nei consigli di sorveglianza delle imprese siedano i rappresentanti del lavoro eletti da tutti i dipendenti, indipendentemente dalla loro iscrizione o meno ai sindacati. I lavoratori – che a livello sindacale nominano anche i consigli di fabbrica – sono così messi in grado di fare valere le loro proposte (e i loro veti) sulla strategia e la gestione aziendale anche nel massimo organo direttivo aziendale. I neoliberisti ovviamente non amano ricordare il successo della co-determinazione, perché sono invece a favore del comando monocratico dei top manager e della valorizzazione delle aziende a esclusivo profitto degli azionisti; ma che in Italia le potenzialità della Mitbestimmung non vengano ricordate neppure dalla sinistra, questo appare veramente stupefacente. Eppure in Germania sia la Linke che la SPD e i Verdi puntano all’ampliamento e al rafforzamento della Mitbestimmung. Mentre la Confindustria tedesca ha sempre cercato di cancellarla.
Il dibattito sulla democrazia economica all’estero è vivace e contrastato. Questo mio contributo rappresenta una sorta di appello perché la sinistra italiana discuta finalmente in maniera approfondita la questione decisiva del governo d’impresa (la cosiddetta governance) e della democrazia nell’economia. Ovunque la crisi viene fatta pagare a chi lavora, ai giovani, alle donne e ai pensionati. Diventa allora attualissimo e cruciale ridiscutere la questione della democrazia economica, cioè del potere dal basso – e istituzionalizzato, cioè riconosciuto e consolidato – del lavoro nelle aziende e nell’economia. Tra l’altro la Costituzione italiana recita all’articolo 46 che “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”: esistono quindi i presupposti giuridici per una battaglia politica sulla democrazia nell’economia.
Recentemente anche nel nostro paese è emerso prepotentemente il problema della democrazia economica grazie alla mobilitazione di successo per il referendum sull’acqua come bene pubblico, cioè da gestire con la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori in un’ottica no profit. Il premio Nobel Elinor Ostrom ci ha insegnato che non esiste solo la proprietà privata o quella di stato, e che i beni comuni, come l’acqua, la cultura, l’ambiente, Internet e Wikipedia, l’informazione e la scienza, possono essere autogestiti democraticamente ed efficacemente dalle comunità interessate[1]. Peter Barnes suggerisce inoltre che per difendere e sviluppare i commons occorre che questi siano dati in proprietà a delle fondazioni no profit che abbiano come unico scopo sociale quello di preservarli a favore delle comunità e delle generazioni future – il riferimento di Barnes è l’Alaska Permanent Fund Foundation che ogni anno remunera i cittadini con i dividendi derivati dai ricavi del petrolio –[2]. In Italia la proposta di Barnes si sta concretizzando con il progetto di fondazione del Teatro Valle di Roma. A Napoli avanza anche la sperimentazione di forme partecipative tra cittadini e enti pubblici dopo la vittoria del referendum sull’acqua.
Ma la questione della democrazia economica non riguarda solo i beni comuni: riguarda anche l’economia di mercato. Nell’Unione Europea 12 paesi su 27 hanno introdotto forme avanzate di partecipazione dei lavoratori nei board delle aziende pubbliche e private: e questi paesi – tra cui naturalmente la Germania e i paesi scandinavi – sono anche quelli in cui si registra la maggior occupazione, più reddito per i lavoratori, maggiore competitività delle aziende, maggiore innovazione, migliore sostenibilità ambientale e maggiore potere sindacale[3]. Germania e paesi scandinavi stanno uscendo prima e meglio degli altri dalla crisi e dimostrano senza tema di smentita che, contrariamente a quanto reclamano i neoliberisti, la democrazia industriale non pregiudica la competitività aziendale; e che, contrariamente a quello che molti a sinistra credono, la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nei board non elimina il conflitto di classe ma costituisce un compromesso avanzato e genera piuttosto un salutare dualismo di potere. Il controllo dei lavoratori eletti nel board delle imprese è tanto più utile nei periodi di crisi acuta, come quello attuale, in cui l’azione sindacale nazionale è più debole di fronte alle società multinazionali che possono delocalizzare come vogliono. E’ immediato confrontare la situazione drammatica della Fiat, che Marchionne sta trasformando in una società estera, con quella brillante della Volkswagen, che può delocalizzare solo con il consenso dei lavoratori presenti nel board.
Lo European Trade Union Institute, ha recentemente pubblicato uno studio che sottolinea il legame strettissimo tra modello anglosassone di governance d’impresa (“tutto il potere agli azionisti e ai top manager”), finanziarizzazione delle aziende, disinteresse per i problemi ambientali e sociali e crisi economica e finanziaria[4]. Un legame che l’ETUI propone di rescindere grazie alla democrazia industriale con l’obiettivo di realizzare un modello di “impresa sostenibile” responsabile verso la società e l’ambiente[5]. I lavoratori nel board possono fare da contrappeso alle tendenze speculative della proprietà e del top management interessato alle stock option. Secondo l’ETUI il modello tedesco potrebbe rappresentare un punto di partenza sia per l’Europa che per l’Italia.
La New Left Review britannica ha pubblicato la proposta del suo ex direttore Robin Blackburn che, riprendendo il progetto di riforma radicale della proprietà aziendale dello svedese Rudolf Meidner, auspica la formazione di fondi pensione finanziati completamente e obbligatoriamente per legge dalle aziende grazie ad azioni da emettere in proporzione agli utili[6]. Richard Hyman, docente di relazioni industriali alla London School of Economics e fondatore dello European Journal of Industrial Relations, si è pronunciato a favore delle proposte di Blackburn[7] sulla democrazia economica ma avverte anche che il capitalismo non è come una cipolla che si può ridurre strato per strato; è piuttosto come una tigre che non si lascia spellare viva. Tuttavia Hyman invoca, sulla scia della lezione di Gramsci, una sorta di guerra di posizione per democratizzare l’economia. Anche l’italiano Luciano Gallino recentemente ha auspicato un diverso e più responsabile ruolo dei fondi pensione gestiti dai sindacati per democratizzare l’economia[8].
A mio parere occorre approfondire il problema irrisolto della democrazia economica, evitando da una parte di attendere la “rivoluzione comunista” per tentare di introdurla nelle aziende, e dall’altra di subordinarsi a progetti neo-corporativi di partecipazione (come la condivisione degli utili proposta dall’ex ministro Sacconi). La democrazia economica può diventare invece uno dei pilastri portanti della democrazia. Occorre anche prendere atto che è molto improbabile che allo stato attuale i partiti di centrosinistra e di sinistra possano diventare promotori di politiche industriali progressive, democratiche e verdi senza una spinta radicale dal basso e senza nessun potere dei lavoratori nelle aziende. La sinistra italiana tenta di difendere il lavoro dagli attacchi del governo sull’occupazione, sull’articolo 18, sulle pensioni, ecc. Ma questa difesa è purtroppo debole: se si vuole vincere, in politica come nel gioco, occorre anche attaccare con dei programmi ambiziosi. L’obiettivo di controllare dal basso l’attività delle aziende è certamente difficile da raggiungere ma non bisognerebbe rinunciare in partenza. Occorre innanzitutto approfondire il dibattito.
[1] Vedi “Beyond markets and states: polycentric governance of complex economic systems”, discorso tenuto da Elinor Ostrom in occasione della cerimonia per il premio Nobel, 8 dicembre 2009 [2] Peter Barnes, Capitalismo 3.0, Egea, 2006, o sul web. Capitalism 3.0 Vedi anche Enrico Grazzini, Il Bene di tutti. L’economia della condivisione per uscire dalla crisi. Editori Riuniti, 2011 [3] Vedi MicroMega: Il-modello-tedesco-per-la-democrazia-economica Enrico Grazzini., 5 aprile 2012 [4] European Trade Union Institution, The Sustainable Company; a New Approach to Corporate Governance, a cura di Sigurt Vitols e Norbert Kluge, 2011 [5] Vedi anche la sintesi di Sbilanciamoci, Apriamo le porte dell’impresa sostenibile, Enrico Grazzini, 2011 [6] New Left Review, A Global Pension Plan, Robin Blackburn, September-October 2007 [7] Global Labour Column, Economic Democracy: An Idea whose Time has come, again?, Richard Hyman, April 2011 [8] Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011