Secondo la ministra del lavoro, in Italia “con un reddito base la gente si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro”. Per risponderle, ecco un’intervista a Philippe Van Parijs, del Basic Income Earth Network, tratta da Per un’altra globalizzazione (Edizioni dell’Asino 2010)
Prima di capire le ragioni per cui dovremmo fare nostra l’idea di “versare a tutti i cittadini, incondizionatamente, un reddito di base cumulabile con ogni altro reddito”, valutiamo le obiezioni più comuni, tra cui quella – già avanzata da Marshall in un diverso contesto – che i diritti di cittadinanza debbano accompagnarsi a delle contropartite, a dei doveri; che ci debba essere un legame tra reddito e lavoro; che la concessione del reddito vada condizionata a un contributo produttivo, o alla volontà di darlo. Come lei ricorda ne Il reddito minimo universale, soprattutto nell’Europa continentale è forte il modello “bismarckiano” “conservator-corporativista” della protezione sociale, l’idea che la previdenza sociale sia legata al lavoro e allo statuto di salariato del cittadino. Mentre nel saggio Il basic income e i due dilemmi del Welfare State riconosce che la parziale “disconnessione tra il lavoro e il reddito richiederebbe un radicale ripensamento” culturale, anche in quei pochi partiti di sinistra che ancora oggi riconoscono nel lavoro un tema centrale della loro agenda politica. Come favorire questo ripensamento? E come risponde alle obiezioni menzionate?
L’idea che il diritto a un reddito debba essere legato al lavoro o alla disponibilità a lavorare, che dunque ci sia un’associazione, che deriva da considerazioni di tipo etico, non economico, tra lavoro e reddito, non si limita ai Paesi dal modello “bismarckiano”, ma investe anche il mondo anglosassone, e direi anzi che sia presente in tutte le società del mondo. A questo proposito, è interessante notare una singolare analogia, perché quest’idea si avvicina molto alla relazione etica che per lungo tempo diverse società hanno istituito tra sesso, gratificazione sessuale e riproduzione. In tutte quelle società nelle quali, in ragione di una forte mortalità infantile, era essenziale ottenere un elevato livello procreativo, divenne infatti eticamente obbligatorio legare la gratificazione sessuale almeno al “rischio” della procreazione, così da contribuire eventualmente alla sopravvivenza della comunità. Per lungo tempo, e per ragioni analoghe, si è radicata l’idea che si potesse avere accesso alla gratificazione del consumo, dunque al reddito, solo a condizione di essere disposti a contribuire alla produzione (l’equivalente della riproduzione nel caso della gratificazione sessuale). La connessione tra i due aspetti è evidente. Oggi però ci troviamo a vivere in condizioni tecnologiche ed economiche molto diverse, grazie alle quali non è più necessario che tutte le attività sessuali siano legate alla possibilità della procreazione, e allo stesso modo non è necessario fare del contributo alla produttività, dunque del lavoro, una condizione di accesso al reddito. Intendo dire che è possibile dare vita a un’organizzazione della società che non sia basata su questo tipo di etica del lavoro. Mi rendo conto tuttavia che questo discorso dimostra solo la possibilità di una diversa organizzazione, ma non che sia giusto o preferibile introdurla. Per questo occorre ancora lavorare molto, superando i tanti ostacoli culturali, sia a destra che a sinistra. Mi sembra comunque curioso che in tutti questi anni l’obiezione etica abbia sempre prevalso rispetto all’obiezione tecnica, relativa alla plausibilità di finanziare un meccanismo del genere, e agli interrogativi sulla realizzabilità politica di quest’idea.
Per lei gli argomenti a favore del reddito minimo universale non possono limitarsi a considerazioni di ordine economico, perché “fanno immancabilmente appello a una concezione della società giusta”. Ma se contravvenissimo alle sue indicazioni, e ci limitassimo alla plausibilità e alla convenienza economica, in che termini l’introduzione del reddito universale sarebbe ispirata dalla “preoccupazione di sradicare non solo la povertà strettamente e staticamente definita, ma anche l’esclusione”, e in che senso “sarebbe non un’alternativa al diritto al lavoro, quanto, piuttosto, un contributo essenziale alla sua realizzazione nelle circostanze attuali”?
Chi sono i poveri? Adottando una definizione molto semplicistica della povertà in termini di differenze, qualcuno è povero quando il suo reddito è inferiore a una certa soglia, arbitraria, di povertà, definita come livello di reddito reale. E qual è il modo più efficace per eliminare questa povertà monetaria? Tassare un pochino i ricchi, senza renderli poveri, senza cioè che i ricchi finiscano al di sotto di quella soglia di povertà, usando i soldi così ricavati per darli alla gente povera, in modo che tutti siano in grado di oltrepassare la soglia. Nel vocabolario degli specialisti della politica sociale questo metodo si chiama target efficiency, e passa per un uso delle risorse volto ad abolire il poverty gap, la differenza che passa tra il reddito e la soglia della povertà. É un metodo che riflette un atteggiamento miope, però, perché la target efficiency massimale crea necessariamente una tassazione marginale sui ricchi, mentre incide al 100 per cento sui poveri. Infatti, quando una persona povera tenta di uscire da una situazione di povertà o di disoccupazione, guadagnando qualche soldo grazie a un lavoro dichiarato, viene punita per il suo sforzo con la soppressione di una percentuale proporzionale del sussidio. Questo significa che per i ricchi il tasso marginale è del 50 per cento al massimo, in certi Paesi del 40 per cento, mentre per i poveri è del 100 per cento, visto che perdono tutto quello che guadagnano. Il solo modo per evitare questo meccanismo perverso è quello di assicurare anche a quanti hanno un reddito primario che non equivale a zero il trasferimento di reddito, che alzerebbe il loro livello di reddito netto al di là della soglia di povertà. In questo modo, è vero, la target efficiency non sarà perfetta, ma la sua imperfezione, ovvero la focalizzazione sui poveri, è la condizione necessaria di una politica intelligente di lotta alla povertà che sia allo stesso tempo anche una strategia contro l’esclusione dal mercato del lavoro. La formula più semplice e sistematica per dare vita a una politica del genere, anche se non l’unica, passa per il sussidio universale, attraverso un trasferimento lordo di uguale entità a tutti, sia che si lavori sia che non si lavori, in modo tale che laddove chi è povero decidesse di lavorare otterrebbe comunque un reddito più alto rispetto ai periodi in cui decidesse di non farlo.
A proposito di lavoro: sono in molti a pensare che il reddito minimo universale sia deresponsabilizzante, o che possa incentivare comportamenti irresponsabili. Già nell’Ottocento il belga Joseph Charlier diceva che rischiasse di incoraggiare la pigrizia, e più recentemente John Rawls, di cui lei si dichiara teoricamente debitore, ha affermato che quelli che fanno surf tutto il giorno sulle spiagge di Malibu devono trovare un modo per provvedere ai propri bisogni, e non dovrebbero beneficiare dei fondi pubblici. Mentre per i “comunitaristi” il reddito universale rischia di allentare ulteriormente i legami sociali, riducendo il sentimento di responsabilità e di solidarietà verso gli altri. Lei invece insiste nel sostenere che il reddito minimo universale consentirebbe a ogni individuo di sviluppare capacità, eliminare dipendenze, accrescere il potere contrattuale come lavoratore, e via dicendo. Ci spiega le sue ragioni?
I sistemi attuali che differenziano il livello di sussidio in base alla composizione del nucleo familiare tendono a concedere più reddito e benefici a due individui che vivano separati piuttosto che insieme. L’individualizzazione legata alla mia interpretazione del sussidio universale, invece, si tradurrebbe nell’incoraggiamento all’unione, visto che laddove questi due individui dovessero mettersi insieme, o decidessero di unirsi ad altri individui, non ne verrebbero penalizzati. In questo senso il sussidio universale costituirebbe un incoraggiamento sistematico alla vita comunitaria e familiare, soprattutto se comparato con i sistemi alternativi. Inoltre, contrariamente a quanti obiettano che sia irragionevole concedere il sussidio senza alcuna contropartita, o senza la garanzia della disponibilità a lavorare, il sussidio potrebbe funzionare anche come sostegno sistematico alle attività non salariate. Capisco bene la preoccupazione “comunitarista” per una vita collettiva che sia attiva e partecipata, ma da questo punto di vista mi sembra che il sussidio universale comporti delle alternative migliori rispetto alle tradizionali politiche laburiste. C’è però un’altra obiezione comunitarista, legata all’idea che ci sia un legame insolvibile tra diritti e doveri, e che una comunità possa funzionare efficacemente soltanto laddove ai diritti si accompagnino i doveri. Anch’io credo che i cittadini debbano avere degli obblighi, e che in alcuni casi questi obblighi vadano tradotti in termini legali, ma allo stesso tempo credo che anche laddove non ci siano obblighi legalmente formalizzati esista il dovere per il cittadino di partecipare alla vita pubblica, e che con il sussidio universale sia più facile farlo. L’idea della relazione diritti-doveri del cittadino dunque è perfettamente coerente e compatibile con il sussidio minimo universale.
In Salvare la Solidarietà parla della necessità non solo di “resistere all’erosione degli elementi universalistici, non selettivi dello Stato sociale”, ma anche di rafforzarli. Riprendendo i termini che adotta nel saggio su I fondamenti morali del Welfare State (incluso nel volume Restructuring the Welfare State), sembrerebbe di poter dire che alla base del suo ragionamento ci sia l’idea che occorra ripensare radicalmente le componenti fondamentali dei nostri sistemi di welfare, trasformandoli da una rete che cattura, e dunque immobilizza gli individui, in un terreno sul quale possano poggiarsi per esercitare effettivamente la propria libertà. Ma come dare luogo a quello che ha definito come The Second Marriage of Justice and Efficiency, quel nuovo contratto sociale che sappia coniugare maggiore sicurezza e maggiore flessibilità?
La giustizia non è solo una questione di reddito, ma di potere, della possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, che si tratti della scelta di dedicare meno ore al lavoro retribuito o della possibilità di avere un più facile accesso al lavoro. In altri termini, si tratta di quello che definisco come libertà reale di fare, nel lavoro e al di fuori del lavoro. Anche se parliamo di un reddito, dunque di una risorsa monetizzabile, i benefici non si limitano a considerazioni sul benessere materiale degli individui, ma investono anche l’uso che possiamo fare del nostro tempo. Il reddito minimo universale ci consente di accedere al lavoro, di svolgere attività fuori dal lavoro, ci dà maggior potere di consumo, essendo universale contribuisce a combattere l’esclusione dal lavoro, in quanto incondizionato ci permette di scegliere tra lavori diversi e tra differenti attività non lavorative. É grazie a tutti questi elementi che può celebrare un matrimonio con la giustizia. Per capire la sua relazione con l’efficienza, dovremmo invece riconoscere da una parte che oggi in molti Paesi la questione centrale è quella della gestione e della creazione intelligente del capitale umano, e dall’altra che il sussidio è lo strumento con cui rendere più facile la circolazione e la mobilità tra le sfere del lavoro, della formazione e della famiglia. Quando si ha a disposizione un sussidio generale, individuale, incondizionato, diventa più facile a un certo punto della propria vita decidere di rallentare, o interrompere per un dato periodo il proprio percorso lavorativo, consacrandosi meglio ai propri figli, dunque alla creazione del capitale umano delle generazioni future. Oppure decidere di approfondire la propria formazione, adattandosi più facilmente alle strutture sempre mutevoli del mercato del lavoro. In questo modo si potrebbe lavorare più a lungo, e, avendo ricevuto una formazione complementare più avanzata nel lavoro, potremmo cambiare più facilmente professione. Si tratta ovviamente di una misura che va completata e integrata con altre riforme del sistema educativo, ma credo che l’introduzione del reddito minimo universale possa costituirne la base, lo zoccolo duro, facilitando una circolazione tra le tre sfere citate in modo da affrontare molto meglio la struttura economica in cui viviamo e la crisi congiunturale che stiamo attraversando.
A proposito di crisi: l’attuale crisi economica testimonia le contraddizioni e la debolezza di un modello economico-culturale, quello neoliberista, della cui egemonia per alcuni segnerebbe in qualche modo la fine. Ne Il reddito minimo universale afferma che una riflessione seria e rigorosa sul reddito minimo universale ci permetterebbe di ripensare in profondità le funzioni dello Stato sociale di fronte alla “crisi multiforme” che affronta, e consentirebbe inoltre di raccogliere le sfide della mondializzazione a chi nutra l’ambizione di offrire un’alternativa radicale e innovatrice al neoliberismo. In che termini il reddito minimo universale costituisce un’alternativa al neoliberismo?
Come la crisi degli anni Trenta del Novecento, anche quella attuale è il prodotto di una falla istituzionale. Tuttavia proprio le riforme introdotte in seguito a quella crisi hanno impedito che se ne concretizzassero altre simili, mentre oggi abbiamo a disposizione gli Stati sociali e gli ammortizzatori, senza i quali le conseguenze, socialmente ed economicamente, sarebbero molto più drammatiche. Le ragioni della crisi vanno ricercate in quelle istituzioni che non hanno funzionato bene, perché non erano state concepite opportunamente, o perché investite dalla dottrina ultra-liberista, che chiedeva minori regolamentazioni. É evidente che ci sia bisogno di un maggior controllo del sistema bancario, di quello immobiliare e delle assicurazioni, legati a doppio filo con quello bancario. E che in termini più generali siano necessarie delle regolamentazioni globali nei settori centrali per il funzionamento dell’economia. In questo senso possiamo parlare di una vera e propria crisi del neoliberismo. Ritengo che il sussidio universale sia un elemento centrale per promuovere un’alternativa al neoliberismo, ma non credo affatto che la sua introduzione avrebbe evitato la crisi. Sarebbe assurdo sostenerlo. Però, se è vero che in alcuni Paesi la crisi risulta meno grave grazie a certe forme di protezione sociale, è altrettanto vero che se avessimo introdotto un sistema di sussidi universali avremmo potuto ulteriormente mitigarne gli effetti. Le condizioni per ripartire sarebbero state migliori rispetto a quelle attuali, in particolare nell’ambito dell’occupazione. Vorrei però aggiungere un altro elemento che considero importante, legato alle ragioni per cui agli inizi degli anni Ottanta ho cominciato a interessarmi al reddito universale: in quegli anni mi interrogavo sugli strumenti con cui risolvere il problema della disoccupazione, che in Europa era molto sentito, in particolare in seguito alla recessione degli anni Settanta. Tutti gli economisti continuavano a sostenere che fosse necessaria una crescita maggiore, ma per me e per molti altri che come me facevano parte del movimento ecologista era assurdo ricorrere ancora una volta alla politica dell’aumento della crescita, anche perché realisticamente per risolvere quei problemi avremmo avuto bisogno di una crescita del 7/8 per cento annuo. L’idea di un sussidio universale, invece, mi sembrava soddisfacesse quella parte del movimento ecologista di sinistra che voleva preservare e “curare” l’ambiente ma risolvere anche i problemi sociali, e che allo stesso tempo rispondesse a quanti reclamavano un nuovo progetto per la sinistra europea di fine Novecento, a chi sentiva la necessità di avere un orizzonte per il futuro, che non fosse riducibile a un mercato sempre più forte come vogliono i neoliberisti, e che non andasse in direzione di un controllo sempre maggiore dello Stato, di un’appropriazione collettiva o statale dei mezzi di produzione, come suggerisce qualche marxista. Si trattava di dare più potere non allo Stato o al mercato, ma a ogni individuo, garantendo a tutti la sopravvivenza, e di favorire la crescita e lo sviluppo di sfere di attività irriducibili tanto al mercato che allo Stato.
In Salvare la solidarietà scrive che un pensiero rawlsiano di sinistra è cruciale per preservare gli spazi di distribuzione esistenti e opporsi con forza alla parcellizzazione della solidarietà, ma aggiunge che bisogna anche impegnarsi per la creazione di meccanismi per un’ampia redistribuzione a livello europeo. Ma come sciogliere il dilemma tra la capacità economica e quella politica, tra l’insostenibilità economica di un generoso welfare state nazionale e l’insostenibilità politica di un generoso welfare state transnazionale? In altri termini, come ovviare al fatto che, come lei stesso nota, quanto più si amplia la cornice geografico-politica tanto più le maggiori possibilità economiche si pagano in minori possibilità politiche?
Da una parte ci sono gli Stati nazionali, politicamente in grado di operare una giusta distribuzione, ma economicamente sempre più impossibilitati a causa della competizione fiscale e sociale del mondo globalizzato, e dall’altra ci sono entità politicamente più ampie, come l’Unione europea, che avrebbero la capacità economica di operare questa distribuzione, ma mancano della capacità politica. Di fronte a questo dilemma, cosa fare? Non credo esista alcuna speranza di restaurare la capacità economica degli Stati-nazione; esiste però la speranza di promuovere e creare le capacità politiche su un livello più elevato. Il fatto è che i meccanismi di redistribuzione macroregionali non cadranno dal cielo, dalla mente illuminata di un filosofo, né, tanto meno, dai computer dei burocrati di Bruxelles. Saranno piuttosto il risultato di una mobilitazione sufficientemente forte e radicata da parte delle associazioni, delle organizzazioni e degli enti che rappresentano e difendono gli interessi dei più vulnerabili, di coloro per i quali questa distribuzione è essenziale. Il guaio è che manca un movimento paneuropeo, transnazionale, davvero coeso e forte, e se la lotta dei sindacati è spesso frammentaria, le confederazioni di partiti politici di sinistra sono deboli. Come rimediare? Agendo sul livello delle “pre-condizioni”, favorendo la capacità di mobilitazione e coordinamento delle lobby che rappresentano le associazioni dei più deboli. In questo senso dovremmo reclamare per esempio l’istituzione di un’unica capitale politica europea, visto che la doppia sede di Strasburgo e Bruxelles facilita le lobby più potenti, in grado di seguire ovunque i parlamentari europei e di influenzarne le decisioni, mentre ostacola quelle minori. La cosa più importante comunque è superare il problema della diversità linguistica: ancora una volta, gli attori politico-economici più “solidi” possono permettersi interpeti e traduttori di qualità, coordinarsi e mobilitarsi sufficientemente, mentre non possono farlo coloro che rappresentano i bisogni più diffusi della popolazione. Affinché costoro possano coordinarsi in modo efficiente e senza costi proibitivi, si deve operare per una democratizzazione radicale e accelerata della lingua franca, l’inglese, uno strumento di potere importantissimo, che costituisce una precondizione per la fattibilità politica di molte iniziative. Inoltre, occorre aumentare la trasparenza delle decisioni prese dalle autorità politiche pubbliche e dalle imprese private rendendole accessibili a tutti tramite internet. E allo stesso tempo c’è il dovere civico e l’obbligo sociale di alimentare il grande serbatoio di internet con informazioni affidabili, lavorandoci con integrità e competenza. La tecnologia internet rappresenta infatti uno strumento eccezionale con cui chi ha meno può ottenere più potere.
Come abbiamo visto, per reddito minimo universale lei intende un “reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri, su base individuale, senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite”. Ci sono però alcuni problemi: stabilire da una parte i limiti geografici della comunità politica, dall’altra quali ne siano le condizioni di appartenenza, e, in termini più generali, individuare una teoria della giustizia che sia adeguata. Lei reclama la necessità di pensare una forma di giustizia globale, e di “puntare all’avvento lento, caotico ma urgente delle prime forme di democrazia planetaria”. Visto il carattere “parzialmente utopico” di tale democrazia planetaria, in Salvare la solidarietà sostiene però che dovremmo promuovere una forma di “patriottismo solidarista”; nel saggio International Distributive Justice, invece, contestando le tesi di quanti credono che non ci possa essere giustizia globale senza un ordine socio-economico globale, senza istituzioni democratiche o strutture di base globali, suggerisce di adottare una “concezione minimalista dei requisiti necessari e sufficienti della giustizia sociale globale”. Ci spiega meglio il legame tra patriottismo solidarista e giustizia sociale globale?
Sostengo questa forma minimalista di giustizia per dare senso al concetto di giustizia globale, ma non dico che per realizzarlo non sia necessaria qualche forma di funzionamento democratico globale. Si tratta di un’obiezione nei confronti di quegli studiosi, come Thomas Nagel o Ronald Dworkin, per i quali il concetto di giustizia egalitaria ha senso soltanto laddove ci sia una comunità democratica. Certo, con un quadro democratico del genere c’è una significativa probabilità di muoversi concretamente verso la realizzazione di questa concezione, ma l’assenza di una democrazia globale non ci impedisce né di pensare, né di essere in qualche modo costretti a pensare la giustizia in termini globali. Per quanto riguarda il futuro immediato e più lontano, credo che le istituzioni più adatte all’ottenimento di democrazia e giustizia siano del tipo “cappuccino”: al livello più centrale possibile va messa la base di caffè forte, che dia “solidità” alla struttura istituzionale nel suo complesso, visto che senza caffè non ci sarebbe cappuccino; ma siccome non ci sarebbe neanche senza il latte cremoso e il cacao, questi ingredienti vanno distribuiti in modo decentralizzato, al livello delle nazioni nel caso di una struttura del tipo europeo, oppure al livello delle regioni, dei municipi, di particolari associazioni, e via dicendo. Il fatto che oggi, per la stabilità dell’architettura istituzionale e per evitare concorrenze sul piano fiscale e sociale, anche nei Paesi federali si attribuisca una forte centralità al livello nazionale e si concedano possibilità diverse ai livelli più decentralizzati, non deve impedirci di immaginare forme più ambiziose, più originali, sperimentali, modellate sulle circostanze particolari, per esempio nel campo della sanità, che potrebbe operare in modo molto più decentralizzato. In ogni caso, la stabilità d’insieme sarà rafforzata se quelli che contribuiscono in netto alla redistribuzione si sentono coinvolti e impegnati in una comunità che porta avanti un progetto originale. E se, accanto alla base forte e ampia di redistribuzione per tutti, ci sono strumenti supplementari e più circoscritti di solidarietà, che promuovano un patriottismo solidarista, appunto. In altri termini, penso che si possa essere convinti dell’importanza di avere istituzioni di redistribuzione a livello europeo, o al limite mondiale, che rappresentino una base per tutti, e allo stesso tempo aderire a progetti di coesione sociale più ambiziosi, su un livello più circoscritto. Tutto ciò sarà possibile quando, al posto di un atteggiamento opportunistico, matureremo l’adesione orgogliosa a una comunità politica in cui la vita sia migliore grazie a una comune partecipazione a un progetto sociale.