Dal referendum sull’acqua alla Perugia-Assisi, alla manifestazione di Roma: il cantiere è aperto, facciamo i modo che nessuno riesca a chiuderlo
C’è qualcosa di realmente pericoloso nella violenza che sabato scorso si è abbattuta sulla manifestazione di Roma. È l’idea che le cose che non si possano più cambiare, che si possano solo distruggere, che la politica sia la cosa più sporca e inconcludente che esista, che i politici e le forze politiche siano tutti uguali e che, in fondo, anche tutti gli altri siano complici e compromessi. Per questo gli incappucciati di sabato non hanno avuto alcuno scrupolo nel rivoltarsi violentemente contro i manifestanti che cercavano di fermarli, nel distruggere ogni cosa senza nemmeno interrogarsi sulla condizione dei loro legittimi proprietari, nel devastare indifferentemente auto, moto, banche, abitazioni, chiese, uffici, spazi, piazze e beni pubblici. La loro scelta di nascondersi e di mimetizzarsi nel corteo per limitare la reazione della polizia non è stata solo una tecnica militare, è stata anche un chiaro gesto di disprezzo nei confronti di tutti quei cittadini che credono ancora nell’importanza e nell’utilità della manifestazione e della partecipazione.
Non ho ancora capito quanti fossero realmente questi teppisti. So che a pensarla come loro ce ne sono molti di più. E questo ci deve preoccupare tutti. Non c’è solo il disagio sociale, la crisi economica, la mancanza di lavoro, la diffusione della povertà, dell’incertezza e dell’insicurezza ad accrescere la tensione e la rabbia. C’è anche tutta la crisi della democrazia, delle istituzioni, della politica e quindi della stessa idea del cambiamento. Se tutto appare bloccato e immutabile, se ogni iniziativa democratica sembra inutile e inconcludente, se persino il Parlamento assomiglia ormai ad un ente inutile, se la narrazione televisiva continua a oscurare la vita reale delle persone che pagano il prezzo più alto della crisi, se a tutti coloro che protestano o cercano personalmente di cambiare le cose viene imposto il bavaglio, cosa resta da fare?
Il discorso sulla violenza e la nonviolenza deve ripartire da qui e non può più essere disgiunto dal discorso sul futuro del nostro paese e della nostra democrazia. I giovani e i meno giovani che sabato hanno impedito lo svolgimento della manifestazione sequestrando la strada, la piazza e la giornata a tutti gli altri si sono messi dalla parte sbagliata. Niente può giustificare la loro follia, che non solo ha cancellato uno straordinario spazio pubblico (costato peraltro grandi fatiche a molti), ma è giunta a mettere a repentaglio la vita di tanta gente. La condanna fattiva di quelle azioni deve essere netta ma deve essere accompagnata dall’impegno a costruire una politica nuova capace di rigenerare fiducia e speranza laddove oggi dominano la rabbia o la rassegnazione.
Questa sfida non è delegabile ad alcuno. Ce ne dobbiamo fare carico noi, ciascuno di noi, tutti insieme, tutti i giorni, con le cose che facciamo, con il nostro modo di guardare agli altri, di pensare al bene comune, di equilibrare i nostri interessi e quelli della comunità in cui viviamo. È evidente che chi sta nei partiti e nelle istituzioni ha una responsabilità maggiore. Ma non è una responsabilità esclusiva e soprattutto non possiamo passare il tempo a lamentarci di quello che gli altri fanno o non fanno. Dopo l’indignazione non ci può essere la violenza. Ce n’è già troppa in giro. Dopo l’indignazione ci devono essere l’impegno e l’assunzione di responsabilità, che a loro volta sono le fondamenta di quella nuova politica che dobbiamo costruire in prima persona. Le centinaia di migliaia di cittadini che sabato hanno affollato la manifestazione di Roma, i venti chilometri di gente che lo scorso 25 settembre ha fatto la Marcia Perugia-Assisi, insieme ai ventisette milioni di italiani che il 12-13 giugno hanno detto no alla privatizzazione dell’acqua danno la misura delle energie disponibili. Il cantiere è aperto. Facciamo in modo che nessuno riesca a chiuderlo.
PS. Le immagini della violenza di Roma hanno fatto il giro del mondo. Ma come sarebbe andata se non ci fossero stati quegli incidenti? Come sarebbe stata raccontata quella manifestazione? Quanto spazio avrebbero avuto le ragioni dei partecipanti e degli organizzatori? Il modo con cui i grandi mezzi di comunicazione (con alcune importanti eccezioni) hanno trattato anche l’ultima Marcia per la pace Perugia-Assisi non lascia spazio a dubbi. In questo sistema informativo c’è spazio solo per la violenza di piazza, la cronaca nera del vicino di casa e gli urli di certi salotti televisivi. Tutto il resto viene sistematicamente rimosso, oscurato o censurato. Nessuno ci venga a dire che per mettere al bando la violenza servono leggi speciali, men che meno quelle teorizzate sull’onda dell’emergenza. Si cominci restituendo il servizio pubblico radiotelevisivo alla sua missione originale: rivolgere uno sguardo attento alla realtà e alla vita delle persone e dei popoli, accertare la realtà dei fatti, assicurare il più ampio pluralismo di voci, opinioni e soggetti, favorire la comprensione dei problemi e promuovere la partecipazione dei cittadini alla vita e alle scelte della collettività.