I gruppi d’acquisto solidale fanno politica. Ma possono anche cambiare la politica? Riflessioni sull’economia e la politica del noi: da una relazione al convegno Sbarcogas 2011
Sono almeno due, ben diversi, i significati del termine “politica”. Vi è la politica dei fini immediati, contrattando i quali si persegue un proprio utile, e vi è la politica della “conversione” identitaria, per ricorrere ad un termine che Pizzorno prende volutamente in prestito dal linguaggio religioso1. Quest’ultima è la politica dei fini di lungo periodo, dibattendo i quali si rimettono in gioco le identità individuali e quindi i confini dei gruppi sociali. Ciò succede perché «gli individui entrano reciprocamente in relazione pratica non soltanto per realizzare scopi comuni, ma anche per scoprire chi sono e cosa diventeranno in quanto esseri sociali»2. La loro identità non è data, ed essi se la costruiscono interagendo con altri.
I Gruppi d’acquisto solidale fanno politica principalmente in questa seconda maniera. Quando domandano «la promozione di un’agricoltura sostenibile; l’attenzione a uno sviluppo equilibrato e a scelte di consumo che siano non solo consapevoli ma anche solidali; la creazione di rapporti con altri soggetti associativi (e, in alcuni casi, partitici); la crescente richiesta alle amministrazioni pubbliche di riorientare le proprie politiche in senso più partecipativo»,3 essi, oltre ad avanzare rivendicazioni, evocano fini di lungo periodo. Ma così incidono sulle identità dei soggetti coinvolti nel processo (se stessi e gli interlocutori), generando un’azione collettiva di natura politica.
“Sono” solidale o mi “comporto” solidalmente?
L’esperienza dei Gas sta all’incrocio tra beni mercantili a qualità controllata, beni relazionali e beni posizionali. Essa inoltre costituisce spesso un percorso di cambiamento identitario. Questi due elementi dell’analisi possono aiutarci a comprendere perché i Gas stanno ottenendo, e ancor più potrebbero suscitare, un ampio consenso politico-culturale.
Molti studiosi hanno documentato il crescente disagio verso un modello di produzione e consumo nel quale i beni posizionali sono centrali4. Questa è una circostanza destinata a durare e che va colta sotto la superficie. Permettetemi di spiegarmi con due esempi, che descrivono la stessa logica anche se toccano altri temi. In una celebre ricerca che risale agli anni Trenta dello scorso secolo, Richard La Piere viaggiò lungo gli Stati Uniti in compagnia di due persone di origine cinese, per verificare quanti luoghi di ricettività turistica avrebbero loro concesso o negato il servizio. Malgrado un forte pregiudizio anticinese tra la popolazione statunitense dell’epoca, soltanto in un caso su circa 250 furono sollevate delle difficoltà. Quando tuttavia, in seguito, La Piere inviò agli stessi albergatori e ristoratori un questionario, ottenne una metà di risposte che, per il 90% circa, rifiutavano di accogliere cinesi5. Tale risultato venne da lui interpretato nei termini della distinzione tra atteggiamenti e comportamenti. Chiamiamo “atteggiamento” ciò che siamo disposti a fare di fronte ad un dato problema: esso esprime come opera l’identità sociale che ci siamo costruiti. Denominiamo invece “comportamento” il singolo atto col quale rispondiamo effettivamente ad un dato problema. Secondo La Piere, l’indagine documenta che i comportamenti razzisti sono assai meno radicati e diffusi degli atteggiamenti razzisti. Quando si tratta di enunciare e difendere un pregiudizio, ciò accade con severa ed impermeabile coerenza. Quando si tratta di calarsi in concreti contesti d’interazione, può succedere che si compiano scelte in cui la “regola” viene continuamente soppiantata da “deroghe circostanziate”. Il secondo esempio è breve ma molto evocativo:
«Nel 1985, nel vecchio Sudafrica dell’apartheid, a Durban vi fu una dimostrazione. La polizia caricò i dimostranti con la consueta violenza. Un poliziotto inseguì una donna di colore, con l’ovvio proposito di colpirla con il manganello. La donna, correndo, perse una scarpa. Il poliziotto, brutale nelle sue funzioni, era anche un giovane afrikaner ben educato, cui era stato insegnato che se una donna perde una scarpa, bisogna chinarsi a raccoglierla. I loro sguardi si incontrarono mentre lui le restituiva la scarpa. Poi lui la lasciò andare, poiché colpirla non era più un’opzione accettabile»6.
Gli atteggiamenti e i comportamenti sono spesso non allineati nei riguardi delle scelte che conferiscono senso alla persona, ossia nei riguardi delle scelte sui fini di lungo periodo, ossia nei riguardi delle scelte capaci di modificare l’identità. Il punto cruciale è che le scelte su come produrre e consumare hanno tali caratteristiche, non meno delle scelte sul razzismo! Ecco dunque che il movimento dei Gas può svolgere, a partire da questa divaricazione, un’efficacissima battaglia politico-culturale. La massa dei consumatori, in termini di atteggiamenti, insegue beni che, in termini di comportamenti, non le danno adeguato benessere. Chi svela, come nella favola, che il Re è nudo, ottiene un’attenzione ed una credibilità molto elevate. Ottiene dunque una “voce” capace di cambiare pezzi importanti della sfera politica.
Bisogni sociali e politica extraistituzionale
Che i Gas facciano politica nell’accezione appena descritta, è indubbio. Ma essi possono anche modificare la politica istituzionalizzata? Un movimento può sovvertire pacificamente le “regole del gioco” istituzionale votando, mobilitandosi in piazza, selezionando i candidati da eleggere, controllando i finanziamenti ai partiti, promuovendo referendum o altre procedure di revisione costituzionale. Che cosa accade, tuttavia, se un movimento tenta di modificare quella sfera senza esservi incluso? Siamo davanti al capovolgimento dell’assunzione secondo cui si ottiene tanta più democrazia, quanto più i vari attori della società vengono inclusi nei processi di decisione istituzionale. Qui invece emerge un soggetto collettivo che intende rimanere esterno, sebbene non estraneo, al quadro politico istituzionale. Ogni tentativo di annetterlo, anziché rafforzarlo, ne cancellerebbe caratteristiche e esigenze.
Davanti ad un simile movimento sociale, un sistema politico democratico dovrebbe assicurare non soltanto la “libertà di rappresentanza” – esprimere l’identità dentro le istituzioni –, quanto altresì la “libertà di appartenenza” – la costruibilità di spazi sociali di riconoscimento – ai più vari soggetti sociali. Ma affinché i sistemi politici possano trasformarsi – da luoghi istituzionali chiusi in cui si decide mediante meccanismi di trasmissione autoritativa delle norme e del potere, e nei quali la rappresentanza è manipolazione o al massimo consultazione, a luoghi ove si moltiplicano procedure conflittuali e/o negoziali e ove la conoscenza si forma e circola anche dal basso verso l’alto –, occorre «che la definizione della democrazia […] comprenda altre due libertà: quella di “non appartenenza”, come possibilità di sottrarsi alle identità costituite per generarne di nuove; quella di “non rappresentanza”, come possibilità di rifiutare o modificare le condizioni date della rappresentanza»7.
Questo ragionamento, ampiamente ripreso dagli studi precorritori di Alberto Melucci, suggerisce, a mio avviso, la posizione che il movimento dei Gas dovrebbe avere rispetto alla sfera della politica istituzionale. Per un verso, in quanto movimento, esso esprime percorsi creativi e critici che evitano i vincoli della rappresentanza. Per l’altro verso esso organizza le energie vitali della società civile e, in tal maniera, probabilmente alimenta figure che, per decisione autonoma, entrano nei meccanismi della rappresentanza. Non corre alcuna corrispondenza automatica tra quelle figure e il movimento; ma la circostanza che senza il movimento quelle figure non sarebbero emerse, testimonia la fecondità della dialettica partecipazione/integrazione, movimenti/sistema.
1 Alessandro Pizzorno, La politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1993, pp.13-14.
2 Samuel Bowles e Herbert Gintis, Democracy and capitalism, Routledge, London, 1986, p.150.
3 Paolo Graziano, Nuovi spazi di partecipazione: i Gruppi di acquisto solidale, “Aggiornamenti sociali”, 2010, pp.7-8.
4 Ad esempio, Bruno S. Frey, Non solo per denaro (1997), Bruno Mondadori, Milano, 2005.
5 Richard T. La Piere, “Attitude and actions”, Social forces, 13, 1934, pp.230-237. Si veda Adriano Zamperini e Ines Testoni, Psicologia sociale, Einaudi, Torino, 2002, pp.62-63.
6 Jonathan Glover, Humanity: una storia morale del ventesimo secolo (1999), Il Saggiatore, Milano, 2002, p.58.
7 Alberto Melucci, L’invenzione del presente, Il Mulino, Bologna, 1982, p.224, corsivi e parentesi quadra aggiunti.
* Il testo qui pubblicato è uno stralcio della relazione tenuta da Nicolò Bellanca all’11° convegno dei gruppi di acquisto solidali (Gas) e dei distretti di economia solidale (Des), svoltosi a L’Aquila dal 24 al 26 giugno del 2011. In allegato pdf, il testo integrale della relazione
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