La situazione è difficile e pericolosa, non per la pretesa fragilità dell’economia italiana, ma perché gialloverdi, Commissione europea e molti stati Ue hanno aperto sul caso Italia un grottesco conflitto, perché si sta discutendo di una sanzione che verrebbe inflitta sulla base di stime e aspettative e non di fatti.
Ci vuole poco ad argomentare i tratti negativi e pericolosi dei gialloverdi: il loro far leva sull’odio, l’ignoranza del quadro istituzionale, la mancata distinzione tra rispetto delle regole democratiche e maggioranza dei voti, l’insipienza e le contraddizioni del programma di governo su flat tax, condoni, provvedimenti per la povertà, ecc.; ma purtroppo sono proprio questi tratti che spiegano il loro vistoso successo elettorale. Quindi, da sole, queste argomentazioni non servono a molto. Più difficile è per la sinistra capire le poche cose sulle quali i gialloverdi hanno ragione, riconoscere i propri errori pregressi, prendere atto della propria scarsa efficacia persuasiva.
Esemplifico. Quando Salvini afferma che l’erroneità delle prescrizioni della Commissione europea è resa evidente dal fatto che le politiche di centrosinistra, a quelle prescrizioni fedeli, non hanno sostanzialmente inciso sul rapporto debito/Pil, dice cosa giusta e, quel che più conta, politicamente (con)vincente. Tutti sanno infatti che quando le terapie praticate per anni si sono rivelate controproducenti, il loro abbandono appare ai più, a torto o a ragione, molto sensato, mentre non sembra il caso di dar retta ai solenni moniti dei precedenti “professoroni”! Difficile obbiettare, soprattutto se i moniti sono basati su vecchie argomentazioni. Ed il problema non è solo italiano.
I gialloverdi cavalcano un numero limitato di cavalli: tra di essi quello dell’esigenza di avere un saldo di bilancio più espansivo in funzione dello sviluppo e quello di combattere la povertà. Gli obbiettivi sottostanti sono degni e giusti, anche se gli strumenti per perseguirli non lo sono.
Se si spulciano le pubblicazioni scientifiche del Fmi e perfino delle sezioni economiche dell’Ocse, e se si usa l’accortezza di andare al di là dei documenti più ufficiali (che diplomaticamente dicono e negano con brillanti circonvoluzioni retoriche), è facile vedere come i think tank interni a tali organismi ammettano ormai sempre più spesso e apertamente alcune evidenze cruciali: la povertà ostacola lo sviluppo; tuttavia essa sembra essere stata più che accentuata dalla liberalizzazione del movimento dei capitali e dal fiscal compact, che non appare aver dato particolari vantaggi quando ha riguardato i capitali finanziari (producendo instabilità e crisi); tale mobilità sembra aver funzionato meglio (ma non sempre a causa di fenomeni di sfruttamento) solo quando ha preso la strada degli investimenti diretti; la stima dei moltiplicatori delle poste di bilancio è stata sbagliata e questo ha dato luogo a manovre troppo restrittive, cosa ammessa esplicitamente perfino dalla Trojka in azione in Grecia; non esiste evidenza che un rapporto eccessivo debito/Pil ostacoli lo sviluppo, come sostenuto da Reinhart e Rogoff solo in base ad errori di specificazione e di stima dei sottostanti modelli; d’altra parte non sembrano nemmeno esservi evidenze sull’esito favorevole a sviluppo e occupazione delle politiche di flessibilità del mercato del lavoro, mentre spesso stimolanti e favorevoli allo sviluppo sembrano essere stati rilevanti programmi di investimento pubblici (per una sintesi non certo esaustiva si veda Jonathan D. Ostry, Prakash Loungani, and Davide Furceri.
Quel che è da chiedersi è quali siano i cavalli dell’opposizione di sinistra. In attesa che un congresso Pd li delinei, in attesa che si esca da un generico “Europa, democrazia, giustizia e progresso”, ciò che appare a qualsiasi osservatore distaccato è, per il momento, che l’unico cavallo sia l’obbedienza a Bruxelles nel “risanamento dei conti pubblici”, il cui parziale successo nella precedente legislatura viene rivendicato con orgoglio ostentato.
Come ho accennato vi sono tante cose negative da dire sulle politiche gialloverdi, ma è controproducente sparare a zero su tutta la linea. L’opposizione di sinistra dovrebbe avere invece la capacità di riconoscere quali sono i cavalli giusti. Solo in seguito a ciò proposte specifiche più efficaci e costruttive per affrontare i problemi connessi a giustizia distributiva, lotta alla povertà, sviluppo, occupazione acquisterebbero maggiore credibilità politica e, forse, una probabile maggiore incisività quale riflesso di una migliorata comprensione delle problematiche in gioco.
Comportarsi in tal modo richiede il coraggio dell’autocritica. Si tratta di qualcosa che nessuno ama fare (come dimostra il mancato congresso del Pd all’indomani dei risultati elettorali), ma che potrebbe avere un grande rendimento.
La situazione attuale è difficile e pericolosa, non certo per la pretesa fragilità dell’economia italiana, ma perché gialloverdi, Commissione europea e molti stati europei hanno aperto sul caso Italia un pericoloso e grottesco conflitto. Grottesco perché in entrambi i fronti abbondano stati maggiori insipienti. Grottesco perché quello di cui si sta discutendo è una sanzione che verrebbe inflitta sulla base di stime ed aspettative e non di fatti, al contrario delle mancate sanzioni nei confronti delle politiche restrittive tedesche o nei confronti di provvedimenti illiberali in paesi come la Polonia e l’Ungheria (e sto parlando di semplice rispetto di regole europee, di “tutte” le regole europee). Come arrestare qualcuno perché ci si aspetta che ruberà.
Pericoloso perché si tratta del primo conflitto veramente duro all’interno dell’Europa dal dopoguerra in poi, un conflitto le cui armi sono nascoste e interamente politiche e ruotano intorno alle elezioni Europee. Le sanzioni sono solo un ballon d’essai. La vera arma è lo spread, che può essere scatenato più o meno intensamente (i mercati atomistici e razionali non c’entrano, i mercati finanziari sono solo uno strumento facilmente innescabile combinando mezzi liquidi relativamente limitati con pezzi di fake information lungo i pattern del comportamento di branco). Ma è proprio l’arma che, se usata troppo disinvoltamente, potrebbe rendere talmente evidente il gioco del ricatto da creare pericoli di successo populista nelle votazioni europee. D’altra parte la tentazione di farne un uso massiccio, non ostante i pericoli di backlash, sarebbe sempre in agguato, ed è quasi “invitata” dalla intransigenza gialloverde.
Insomma, viviamo sull’orlo di un abisso scavato da pessimi giocatori. Come sempre in guerra, le strategie possono sfuggire a qualsiasi riflessione razionale; piccole sviste, anche solo di timing, su questioni minori possono produrre effetti disastrosi e non previsti. Vorrei ritornare sull’opportunità di riconoscere la correttezza dei due cavalli di cui ho parlato. La situazione di gioco, sul piano internazionale, è diversa da quella che condizionò l’abbandono di Berlusconi, visto che non sembra esistere al momento in Italia alcuna alternativa praticabile alla maggioranza gialloverde, come invece era, con qualche forzatura, ai tempi del protagonismo di Napolitano. Le esitazioni cui per il momento stiamo assistendo nell’uso dello spread sono dovute non solo al timore di backlash che potrebbero seguire ad una eccessiva e troppo visibile invadenza degli interessi che sostengono la Commissione, ma anche a questa mancanza di alternative democratiche.
Ma dovrebbe essere ormai ben chiaro che la tentazione di scatenare lo spread resta alta. E’ proprio per questo che l’idea che le opposizioni italiane rafforzino l’idea che non esistano alternative democratiche, dichiarando esplicitamente di condividere strategie per la redistribuzione dei redditi e per saldi espansivi, a condizione di concordarne, sia con i gialloverdi che con la Commissione, l’uso per azioni diverse quanto alla loro configurazione tecnica, istituzionale e sociale. Ciò potrebbe offrire una sponda alla riapertura di vere trattative e perfino (senza troppe illusioni) ad un inizio di ripensamento del processo di costruzione europea. Una tale mossa renderebbe infatti evidente il carattere drammatico e suicida di un uso spinto dello spread. Ciò anche alla luce dei tanti, stupidi e irriflessivi errori fatti nel recente percorso europeo, a cominciare dall’esperienza sulla Brexit per finire all’ondata dei gilet gialli che attraversa la Francia.
Non sto affatto proponendo una entrata al governo della sinistra, una entrata che nessuno vorrebbe né da una parte né dall’altra. La mia non è una provocazione. E’ una mossa che, sparigliando il gioco, ridarebbe all’interno del paese spazio per l’esistenza stessa della sinistra e per iniziative politiche costruttive da parte di una tale sinistra. Vogliamo smettere di edulcorare i veleni? Oggi, a bocce ferme, nessuna proposta di sinistra verrebbe presa nemmeno in considerazione dalla stragrande maggioranza degli elettori. Ma sarebbe salutare anche sul piano internazionale, spuntando le armi dei peggiori falchi in azione in Europa, scoraggiando forse a priori mosse avventate da parte della Commissione e dei sui alleati e forse inducendo dubbi nello schieramento favorevole alla Commissione.
L’ipotesi che la costruzione europea si stia malauguratamente sfaldando a velocità crescente è tutt’altro che peregrina. L’atteggiamento ostile all’Italia dei paesi europei a guida populista, le cui motivazioni sono dettate solo dalla paura di dover pagare qualcosa, suffragano questa ipotesi. La costruzione europea è infatti uccisa dalla scomparsa di qualsiasi intenzione solidaristica, per il bilancio come per la gestione dei flussi migratori. La Commissione dovrebbe fare lo sforzo di capire che la solidarietà viene meno quando vengono meno abbondanza e lungimiranza.
Invece di ostinarsi a inseguire i feticci del fiscal compact senza far altro, la Commissione farebbe bene ad organizzare un salto di qualità sul piano delle strategie di investimento in tutto ciò che serve per una costruzione europea che riprenda il sogno infranto di Delors, il fare dell’Europa un polo competitivo mondiale puntando su politiche industriali e innovazione. Un sogno che è uscito non solo dagli orizzonti, ma perfino dal linguaggio di una sfera politica sempre più superficiale ed incolta.
Purtroppo ho un sospetto, di quelli che fanno venire meno ogni speranza e trasformano l’ansia in angoscia, ed è che la maggior parte delle forze di centrosinistra non siano in grado di capire che le politiche di Bruxelles sono sbagliate. Così suggeriscono, purtroppo, i luoghi comuni che molti importanti personaggi di sinistra condividono con l’establishment culturale che alla Commissione europea fa da supporto e da salotto di risonanza. Mi limito a pochi esempi: il debito pubblico fardello per le generazioni future, la flessibilità del lavoro, bisogna difendere il risparmio.
Ebbene, mi limito a ricordare poche cose. E’ noto da secoli, e comunque è stato ben evidenziato con parole semplici da Pareto, che a fare la differenza per le generazioni future è la qualità della spesa e non le differenze nel suo finanziamento, che i costi presenti non possono essere trasferiti al futuro, che il debito interno pone solo problemi distributivi. Due gli argomenti convincenti: la guerra di Libia del 1911 sarebbe stata decisa se il Parlamento di allora, eletto tra e dai più ricchi, avesse dovuto finanziarla con una imposta sul patrimonio dei più ricchi invece che con il debito (che do luogo ad imposte pagate da ricchi e poveri)? Se in un qualche momento la distribuzione delle cartelle del debito fosse la stessa di quella delle imposte che servono per pagare gli interessi, cartelle e imposte potrebbero essere annullate senza conseguenze reali. E poi è ben noto che occorra distinguere tra debito interno e debito estero e fa molta differenza se il debito con l’estero deriva da un prestito internazionale ovvero dal fatto che i titoli di stato sono stati comprati da soggetti esteri solo perché rendono di più per effetto di uno spread manovrato facilmente per scopi politici da c.d. “mercati” tutt’altro che “atomistici”.
E, ancora, quando si parla di risparmio si faccia una sana distinzione tra difesa dei risparmi accumulati in passato (da un punto di vista macroeconomico corrispondenti alla “ricchezza di carta” di Tobin) e formazione di risparmio, che oggi è eccessiva (saving glut), perché va a contrarre i consumi senza alimentare gli investimenti, ed è comunque dettata dalla paura del futuro, dai tagli alla spesa sociale, dalla riforma pensionistica. E vogliamo smettere di parlare di investimenti e investitori i soggetti che compravendono solo finanza? Ed infine, quanto alla flessibilità, perché non porre in relazione sviluppo, crescita della produttività e occupazione con lo strutturarsi, tra il 1880 e il 1970, dei c.d. “mercati interni del lavoro”, cioè di sistemi basati su regole di carriera e forme di stabilità nei rapporti di lavoro? Forse pochi si sono accorti che si è trattato della più rilevante trasformazione, che ha interessato, in forme diverse e simile sostanza, tutti i più importanti paesi oggi sviluppati che vi è stata nel secolo che ha cambiato radicalmente la vita e la faccia delle società occidentali. Queste mie considerazioni possono apparire fuori tempo. Non credo. Il conflitto con l’Europa sarà attuale per molto tempo. Interessante sapere cosa ne pensano i candidati segretari del PD che emergeranno a partire dal 18 novembre.