Secondo il think-tank creato nel 2013 dal governo francese, i paesi europei potrebbero subire una perdita di 110 miliardi nell’arco di dieci anni, l’equivalente dell’0,8% del Pil dell’area. La stima non è stata realizzata per mero esercizio teorico: al contrario, si situa in un contesto in cui la disgregazione dello spazio Schengen sembra sempre più […]
Secondo il think-tank creato nel 2013 dal governo francese, i paesi europei potrebbero subire una perdita di 110 miliardi nell’arco di dieci anni, l’equivalente dell’0,8% del Pil dell’area. La stima non è stata realizzata per mero esercizio teorico: al contrario, si situa in un contesto in cui la disgregazione dello spazio Schengen sembra sempre più vicina. Lo fanno notare gli stessi ricercatori: a fronte degli attuali flussi migratori, sei paesi – Germania, Austria, Francia, Slovenia, Svezia e Danimarca – hanno di fatto già ripristinato i controlli alle frontiere. Intanto, la Commissione europea sta lavorando a una procedura per consentire la sospensione degli accordi per due anni: sono stati gli stessi ministri dell’Interno dei paesi membri a chiederlo, in un meeting tenutosi lo scorso 26 gennaio ad Amsterdam. Forse senza aver considerato a fondo l’impatto economico di una simile misura.
La stima sviluppata dal think tank d’oltralpe si focalizza sulla Francia, per la quale è stimato un impatto negativo sul PIL tra 1 e 2 miliardi: per metà il calo sarebbe imputabile a una flessione del turismo, per il 38% agli effetti sul lavoro transfrontaliero, e per il rimanente 12% alle conseguenze sul trasporto merci. Questo sul breve termine. Se invece si considera un definitivo abbandono di Schengen, e l’impatto di questo sul medio-lungo termine, il contraccolpo sull’economia francese sarebbe più forte: circa 13 miliardi, pari allo 0,5% del Pil nazionale, con un calo delle esportazioni compreso tra 10,8 e l’11,4%, e delle importazioni tra l’11,4% e il 13,7%.
Allargando lo sguardo all’intera area Schengen la situazione non risulterebbe migliore, anzi: gli scambi commerciali all’interno dell’Unione subirebbero una diminuzione compresa tra il 10 e il 20% – pari all’introduzione di una tassa del 3% sugli scambi commerciali, come precisa lo studio – con la perdita prevista del 0,8% del Pil, quasi un punto percentuale del prodotto interno lordo dei paesi interessati. Una percentuale corrispondente a 28 miliardi per la Germania, 13 miliardi per l’Italia, 10 per la Spagna e 6 per l’Olanda. Per non parlare dei paesi maggiormente dipendenti dagli scambi interni: ad esempio la Slovacchia, la cui economia per il 70% dipende dai rapporti commerciali con gli altri paesi continentali.
Non occorre, comunque, fare troppi sforzi di immaginazione per capire che questa situazione potrebbe gravare pesantemente sull’economia dei paesi europei: come sottolinea lo studio, alcuni paesi stanno già sperimentando grandi difficoltà legate alla reintroduzione dei controlli.
Ai confini tra stati si moltiplicano le code di tir e automobili: attese che non ingolfano solo le strade europee, ma anche le casse, conseguenza diretta dell’aumento dei costi per i trasporti. La reintroduzione dei controlli alle frontiere, inoltre, sta già impattando negativamente sulla qualità di vita, e sulle tasche, dei lavoratori transfrontalieri. A questi aspetti vanno aggiunti i costi che i paesi dovrebbero sostenere per collocare alle frontiere gli addetti ai controlli.
Ma a destare preoccupazione circa un possibile abbandono di Schengen non sono “solo” gli aspetti economici. La reintroduzione delle frontiere avrebbe inevitabilmente ripercussioni sul “progetto europeo”: provocherebbe frizioni tra i paesi membri e avrebbe un’inevitabile ricaduta sulla libera circolazione di merci e persone – attualmente al secondo posto nell’elenco dei risultati positivi dell’Unione europea ritenuti rilevanti dall’opinione pubblica, secondo le rilevazioni di Eurobarometro.
L’eliminazione dell’accordo rappresenterebbe per l’Europa un pesante fallimento. Ma del resto come non vedere che il “progetto europeo” è già arenato, su una questione che invece richiederebbe unità e condivisione?
L’aumento dei flussi migratori verso l’Europa ha esasperato le divisioni già presenti e ne ha create altre. Lontani da una cooperazione volta a dare una risposta coesa e omogenea di accoglienza – l’unica urgenza in un panorama internazionale devastato da conflitti, violenze e squilibri sempre più evidenti e inaccettabili –, i paesi membri hanno invece alzato muri e barriere, trovando un’unità d’intenti solo sulle politiche di esclusione e allontanamento, e sulle conseguenti misure, dalle espulsioni, ai respingimenti, alle detenzioni. Una scelta che aggrava la condizione tanto dei profughi, quanto dei cittadini europei, come mostrato dallo studio.
Viene dunque spontaneo chiedersi: se migranti, profughi, lavoratori e cittadini escono indeboliti da queste scelte politiche, chi invece ne trae vantaggio? E soprattutto: l’esigenza di proteggere le persone non dovrebbe costituire di per se stessa una priorità?
Visita il sito Cronache di ordinario razzismo