Pur con meritevoli eccezioni, al momento occuparsi di tempi di lavoro pare un vezzo, una tensione legittima ma secondaria di fronte al dilagare del precariato e della povertà
Psicologi, più che economisti. Servono psicologi, per comprendere la gigantesca rimozione che colpisce la politica italiana: non passa giorno senza allarmi mediatici sui robot che “rubano” lavoro, eppure la distribuzione dei tempi di lavoro nemmeno si affaccia ai margini del dibattito politico.
L’ennesima occasione persa è questa campagna elettorale, che sul tema vedeva due soggetti partire in pole position. Uno, a sorpresa, era il M5S: nel 2016 i deputati Tiziana Ciprini e Claudio Cominardi hanno meritoriamente promosso uno studio sull’evoluzione del lavoro, con il sociologo Domenico De Masi e numerosi esperti; nel 2017 hanno poi elaborato un “programma lavoro”, a cui anche chi scrive ha contribuito da esterno, nella convinzione che l’egemonia culturale avanzi per strade spesso imprevedibili. Il programma, poi votato dagli iscritti, era fondato proprio sulla riduzione degli orari di lavoro, con alcuni realistici indirizzi traducibili in un articolato Disegno di legge. L’altro soggetto in cui il tema aveva fatto capolino è Liberi e Uguali, o meglio la sua componente minoritaria di Sinistra Italiana, dall’ex viceministro dell’economia Stefano Fassina, che da tempo auspica un “Piano nazionale di redistribuzione degli orari di lavoro”, al giovane studioso Simone Fana, che ne ha scritto con convinzione e competenza anche su queste pagine.
All’avvio della campagna elettorale, domenica 21 gennaio, i vertici dei due partiti hanno di nuovo imboccato una strada comune. Ma è un’altra. Nei “20 punti per l’Italia” del M5S e nella convention “Un’economia per i molti, non per i pochi” di LeU, i tempi di lavoro sono scomparsi dall’orizzonte: al centro dei rispettivi impegni per il futuro del lavoro ci sono gli investimenti per la riconversione ecologica dell’economia. Condivisibili e necessari, ci mancherebbe, così come le assunzioni nei servizi pubblici oggi agonizzanti. Ragionevoli, non generano grandi turbamenti dell’animo e dell’ordine dato.
Obiezione: “Ma sul programma pubblicato sul sito…”. Sì, sui programmi pubblicati sui siti rimane traccia dei tempi di lavoro. 7 righe su 151 nel programma lavoro di LeU (al penultimo capoverso, dopo “i premi dei dirigenti ancorati a obiettivi di lungo periodo”), a inutile consolazione di quanti ambivano a farne un asse strategico.
Si è aggiunta ora la rete di Potere al Popolo, che vede molti suoi componenti politici e sindacali battersi in vertenze concrete, ad esempio contro il piano che pretende di salvare l’Atac facendo lavorare di più gli autisti. Vedremo presto se la bandiera “lavorare meno lavorare tutti” esposta in prima fila nelle assemblee saprà anche evolversi in proposta politica organica.
Insomma, pur con meritevoli eccezioni, al momento occuparsi di tempi di lavoro pare un vezzo, una tensione legittima ma secondaria di fronte al dilagare del precariato e della povertà. Un residuo ideale di un’età dell’oro, gli anni ‘70, in cui ci si poteva preoccupare “anche” del tempo e della salute, perché c’era piena occupazione e si arrivava agevolmente a fine mese. E di cui ci occuperemo magari in un’età dell’oro futura, quando avremo redistribuito i redditi e abolito finanche il pacchetto Treu. Questo “sentimento” pre-razionale sembra cioè suggerire che solo quando avremo il pane torneremo a occuparci anche delle rose.
Facciamo qui finta che le rose non esistano e concentriamoci sul pane, ma a partire da una domanda: gli orari di lavoro troppo lunghi per alcuni e troppo corti per altri, sempre più intensi e flessibili per tutti, sono solo una conseguenza, un effetto della debolezza politica dei lavoratori, o ne sono forse, soprattutto, la causa?
In tutti i paesi avanzati monitorati dall’Ocse – tutti, dall’Italia alla Corea – i tempi di lavoro individuali medi sono in costante diminuzione. Non a partire dai crolli del Pil del 2008, dall’austerity o da altri eventi contingenti, ma da decenni, per gli effetti a lungo termine delle nuove tecnologie e, in misura inferiore, delle esternalizzazioni all’estero.
La riduzione dei tempi di lavoro è dunque già in corso. Riscriviamolo: la riduzione dei tempi di lavoro è già in corso. Ma non è governata, è lasciata all’arbitrio delle imprese, anzi peggio, di ogni singola impresa, che la gestisce come meglio crede: contrattini di poche ore per qualcuno, straordinari obbligatori per altri, lavori a chiamata, intermittenti, somministrati, on demand ai figli, orari contrattuali in aumento, taglio delle pause e dei riposi, erosione dei permessi e dei congedi a padri e madri. Figli, genitori e nonni disoccupati (a proposito: da quest’anno i disoccupati over 50 hanno superato gli under 25) perché, semplicemente, di lavoro ce n’è sempre meno. Una benedizione che diventa una condanna. Un enorme esercito di riserva sotto ricatto, in competizione con i propri simili per… lavorare di più. E quando devi sommare due o più mini-contratti per arrivare a fine mese, non è certo intuitivo comprendere che la riduzione degli orari è una risposta ai tuoi problemi. Eppure serve proprio a te, non solo a chi lavora troppo (per le rose), ma soprattutto a chi lavora troppo poco (per il pane).
Anche prendendo con cautela i catastrofismi sul futuro e anche tornando a creare lavoro utile (peraltro non all’orizzonte), la dinamica di riduzione dei tempi di lavoro non è destinata a invertirsi, e nemmeno in fondo sarebbe auspicabile. Allora, combattere i lavoretti e il precariato denunciando la “sovrastruttura” normativa, le leggi che li hanno permessi, può scaldare cuori militanti e identificare responsabili politici, ma è un’inconcludente illusione senza incidere anche sulla struttura produttiva che li ha generati, abbattendo la domanda di lavoro e archiviando per sempre l’obiettivo della piena occupazione 40 ore x 47 settimane (x 42 anni).
Se questa analisi è corretta, leva ogni alibi a politica e sindacato: oggi non si può rimanere fermi, non fare è altrettanto colpevole di fare male, perché quella dinamica strutturale prosegue giorno dopo giorno, stritola vite umane e sarà sempre più difficile riorientarla a beneficio di tutti. Negli anni ’70 contrattare e ridurre gli orari di lavoro era un’opportunità, oggi è una necessità.
Attenzione: distribuire il lavoro è la funzione più nota della riduzione degli orari, ma non è la più importante. La principale è distribuire la ricchezza. L’obiettivo non è (solo) la piena occupazione, è la giustizia sociale.
La ricchezza prodotta nel mondo cresce senza sosta, l’innovazione tecnologica e organizzativa aumenta la produttività del lavoro, cioè in un’ora di lavoro si produce sempre più valore. Ma da decenni questa quota supplementare è lasciata nelle mani delle imprese, invece di essere ripartita con i lavoratori che la generano, aumentando i salari a parità di orario (il pane) o riducendo gli orari a parità di salario (le rose) o entrambi. Siamo poveri non perché c’è la “crisi” (i valori di Borsa sono ai loro massimi storici), ma perché tutti i benefici economici del sapere umano vengono sequestrati dai profitti dei capitalisti. Anche se lavorassimo meno lavorassimo tutti, ridurre gli orari rimarrebbe indispensabile per riprendersi la propria quota di pane prodotto in sovrappiù, anziché contendersi le solite briciole. E laddove il pane è sufficiente, si torna ad ambire alle rose, al controllo e godimento del proprio tempo. Di nuovo: è impegno generoso ma parziale tentare di distribuire a valle, con la tassazione di redditi e patrimoni, ciò che è concentrato a monte, quella “distribuzione primaria” dei redditi che in tre decenni ha spostato quasi 200 miliardi annui dai lavoratori ai capitalisti.
Peraltro un piano nazionale di riduzione degli orari potrebbe generare ricchezza supplementare e benefici perfino per i capitalisti nostrani, che oggi arrancano tagliando i costi, invece di investire e innovare come e cosa si produce. Lo constatava già nel 1880 il programma del Partito Operaio francese: “L’industria francese è in questo momento battuta in breccia dalle industrie d’Inghilterra, del Belgio e della Germania; la sua debolezza proviene dall’inferiorità del suo macchinario, che è dovuta ai bassi salari e alle lunghe giornate di lavoro degli operai francesi (…) I padroni francesi fanno pagare ai loro operai l’inferiorità della loro attrezzatura; per sostenere la concorrenza straniera, essi non si preoccupano di trasformarla, ma di abbassare i salari e di prolungare la giornata di lavoro. Uno dei mezzi per costringerli a perfezionare il loro macchinario sarà la riduzione della giornata di lavoro”. Vale anche oggi, come ha confermato proprio in Francia l’avvio delle 35 ore: grazie a quello stimolo, le imprese sono state costrette a innovare e la produttività è cresciuta più dei costi, superando perfino quella tedesca.
Nel 2019 sarà passato un secolo dalla conquista delle 8 ore in Italia (1919), il nostro lavoro e le nostre vite sono ancora organizzate sul quel modello. Prima di allora c’è ancora una possibilità, il congresso della CGIL. Forse riproporrà la rassicurante ma insufficiente formula difensiva Piano del lavoro + diritti universali. Potrebbe invece segnare una svolta e portare l’organizzazione del lavoro e dei suoi tempi al cuore della propria azione, rinnovando e arricchendo la contrattazione, il conflitto sociale, il ruolo politico del sindacato, la passione e l’intelligenza degli attivisti. Ne beneficerebbe l’intero paese, comprese le imprese, escluso l’1% e suoi vassalli.
Non basteranno però quattro righe di rito nelle mozioni, “Ma sul programma pubblicato sul sito…”, disattese dal giorno successivo.
Serena Sorrentino, Maurizio Landini, quanti altri ne avete la responsabilità, un appello: nessun forse, se è no è no, se è sì è sì.