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Un New Deal globale fondato sul lavoro

Non è crollato solo un castello finanziario. È saltato il meccanismo di alimentazione della domanda globale degli ultimi 15 anni, e con esso un ordine culturale, politico ed economico. Adesso siamo di fronte a un bivio: un nuovo patto economico, sociale e geopolitico, oppure il protezionismo populista

È oramai un luogo comune definire la crisi in corso come “epocale”. Gli interventi di politica economica hanno mobilitato risorse enormi. L’aumento del debito pubblico stimato per il 2009-10 nelle economie mature (+27% negli Usa, +30% in Giappone, + 20% in Europa) richiama andamenti da economia di guerra. Le lezioni della storia sono state apprese. Ora le condizioni del malato appaiono stabili. L’emergenza sembra superata. Qui non vogliamo cimentarci nelle previsioni sulla congiuntura o sugli effetti delle correzioni, prima o poi necessarie, dei bilanci degli Stati e delle banche centrali. Non intendiamo posizionarci tra quanti vedono tante rondini e annunciano una primavera imminente, quanti vedono solo una rondine e, secondo saggezza antica, dubitano dell’arrivo della primavera e quanti non vedono neanche la rondine.

Qui proviamo a fare qualche riflessione sul possibile ordine da costruire per riavviare i motori della crescita e dello sviluppo in termini sostenibili. Poiché siamo ad un passaggio di fase. Viviamo un cambio di stagione. Un profondo movimento geo-economico e geo-politico. Infatti, non è soltanto crollato un castello finanziario. È saltato il meccanismo di alimentazione della domanda globale degli ultimi 15 anni. È saltato un ordine culturale, politico ed economico. Pertanto, il termine crisi è riduttivo per una fase di transizione verso un ordine diverso.

L’equilibrio rotto dalla crisi era, infatti, un equilibrio ingiusto, instabile, insostenibile, sia in termini economici che sociali ed ambientali. Attenzione, però. Tale valutazione non intende disconoscere le contraddizioni presenti nell’ultimo trentennio, ossia le componenti di straordinaria dinamicità, innovazione, sviluppo, liberazione di risorse. Non capiremmo il successo di pubblico, oltre che di critica, senza riconoscere la colossale riduzione della povertà intervenuta nelle economie emergenti ed in alcune economie in sviluppo, senza ricordare gli spazi di libertà, oltre ai tassi di crescita, dovuti al paradigma economico e sociale dell’information technology e alle leve finanziarie.

Tuttavia, nonostante gli indubbi aspetti progressivi, l’equilibrio pre-crisi era un equilibrio insostenibile, poiché retto dal consumatore americano che trainava, a debito, la domanda globale. Per trainare le esportazioni del resto del mondo, il debito delle famiglie degli Stati Uniti aumentava dal 40% del Pil all’inizio degli anni ‘70 al 100% del Pil alla fine del 2007. Il lavoratore americano full time e scolarizzato, ossia le classi medie, comprava a debito anche perché il suo reddito da lavoro rimaneva fermo in termini reali o si riduceva, mentre salivano i costi dell’assicurazione sanitaria e pensionistica, del college per i figli, delle abitazioni. La vulgata neo-liberista non solo giustificava, ma poneva quale obiettivo delle politiche economiche e sociali l’aumento della disuguaglianza quale condizione per il miglioramento generale. Lo slogan era maggiore disuguaglianza uguale maggiore crescita e maggiore reddito per tutti. E maggiore mobilità sociale. L’esito è oramai noto. In un arco di tempo che ha visto quasi triplicare il Pil in termini reali, i frutti della crescita escludevano il 90% dei lavoratori. La maggiore mobilità sociale è rimasta un miraggio. L’85% della ricchezza finanziaria concentrata nelle mani del 10% delle famiglie più ricche. In breve, la crisi dei welfare state ha lasciato le democrazie delle classi medie appese alle scialuppe della finanza. Nel trentennio alle nostre spalle, le democrazie delle classi medie hanno resistito attraverso la welfare finance. La vicenda delle classi medie degli Usa è stata la più incisa dal paradigma del fondamentalismo di mercato, ma quasi tutti i Paesi sviluppati, in particolare i Paesi anglo-sassoni, hanno avuto storie simili. In un rapporto dal significativo titolo “Growing unequal”, l’Oecd documenta il drastico peggioramento della distribuzione del reddito avvenuto quasi ovunque nelle economie mature. In particolare, il rapporto rileva come tale peggioramento abbia radici nel mercato del lavoro, ossia dipenda poco dall’indebolimento della progressività dei sistemi fiscali o di welfare e prevalentemente dai rapporti di forza a base della distribuzione primaria del reddito tra capitale e lavoro. L’indice di disuguaglianza pre-tasse e trasferimenti fiscali e sociali peggiora radicalmente in Occidente ed in Giappone. In sintesi, degenerazione della finanza e polarizzazione nella distribuzione del reddito sono state facce della stessa medaglia.

La crescita a debito non sarebbe potuta andare avanti a lungo se fosse stata accompagnata soltanto dalla politica monetaria iper-espansiva della Federal Reserve. Il meccanismo ha retto grazie al comportamento delle classi medie delle economie emergenti. Il prestito a buon mercato al consumatore americano veniva dall’eccezionale risparmio accumulato dalla middle class emergente delle metropoli asiatiche. Un flusso di risparmio che si spostava in senso opposto a quanto é sempre avvenuto nella storia: dalle economie più povere alle economie più ricche. Dalla Cina, dall’India, dal sud est asiatico, dai Paesi esportatori di petrolio agli Stati Uniti e alle altre principali economie di stampo anglo-sassone. Un risparmio accumulato contro i rischi sociali da middle classes insicure del loro status, sprovviste del welfare roosveltiano o socialdemocratico tipico della fase di sviluppo delle democrazie occidentali e del Giappone. Un risparmio canalizzato dalle autorità monetarie verso i titoli del Tesoro e le obbligazioni bancarie Usa al fine di tenere artificialmente sopravvalutato il dollaro, così da non minare il potere d’acquisto del consumatore USA e, al tempo stesso, accumulare riserve in valuta, l’arsenale atomico del XXI secolo, per minacciare e proteggersi dall’attacco speculativo dei mercati, potente forza di cambiamento politico e sociale nel 1997 nel sud-est Asia.

Il meccamismo pre-crisi è irriproducibile. Ecco il punto politico da cui muovere. La transizione è aperta ad esiti opposti. Nessun crollo dell’impero americano, profezia ricorrente nelle file della sinistra, ma sempre smentita dai fatti. Semplicemente, viviamo il ridimensionamento dell’egemonia culturale, del primato politico e della centralità economica degli Usa. Non possiamo più fare affidamento sul consumatore americano in crescente indebitamento. La scommessa della Fiat sulla Chrysler mi pare poggi su un’analisi ancora più discontinuista di quella qui proposta: dal SUV alla “Nuova 500” è una rivoluzione culturale.

Ora siamo ad un bivio. O un ordine globale per ricostruire le condizioni per le democrazie delle classi medie. Un patto economico e sociale e geo-politico analogo per portata al compromesso fondativo delle democrazie negli Stati Uniti, in Europa ed in Giappone definito a cavallo della II Guerra Mondiale . Un “New Deal globale”, riprendendo la formula dal Global Progressive Forum, il forum promosso dal PSE, partecipato da tutti i partiti socialisti e democratici del mondo e dalle organizzazioni dei lavoratori europee ed internazionali.

O un New Deal globale o il ripiegamento protezionistico, nazionalista e corporativo verso democrazie elitarie profondamente diseguali e inevitabilmente populiste. E’ il sentiero facile, da tanti già intrapreso, nonostante la retorica pro-global. Ma la partita è in corso. Il G-20 di Londra segna passi avanti nella direzione giusta. Dietro i riflettori sul braccio di ferro sulle politiche di bilancio espansive è stata avviata la fase costituente per costruire la governance globale adatta allo scenario geo-politico in divenire. L’intelligenza della leadership USA, la maturata consapevolezza della propria forza e responsabilità da parte della Cina, il realismo quasi disperato del Regno Unito e, soprattutto, i legami dell’interdipendenza economica scarnificati dalla crisi in corso hanno aperto la strada delle riforme. È evidente che il percorso è lungo e pieno di ostacoli, ma siamo in cammino. La riforma della governance multilaterale per restituire legittimità politica ed efficacia economica alle istituzioni di Bretton Woods e definire le condizioni macroeconomiche per attivare una domanda aggregata multipolare, sostenibile sul piano economico, sociale ed ambientale, orientata all’obiettivo della green economy. In primo luogo, attraverso una ridefinizione dei rapporti di forza al loro interno, per accrescere i poteri delle economie emergenti e, necessariamente, ridurre lo spazio delle economie sviluppate, in particolare dell’Europa. Una incisiva revisione delle quote da concludersi entro il 2011 è stata prevista nel comunicato del G-20, come pure prevista è stata la cancellazione della spartizione tra europei e Stati Uniti del Managing Director del Fondo Monetario e del Presidente della Banca Mondiale. Le conclusione della Commissione Manuel, istituita in ambito FMI sotto la guida del Ministro delle Finanze del Sud Africa, contiene importanti indicazioni di riforma. Sull’altra faccia della medaglia della riforma della governance multilaterale, troviamo la costruzione di un sistema monetario globale sostenibile in sostituzione del precario dominio del Dollaro. L’iniziativa è stata presa con equilibrio e capacità dalla Cina. Prima, il Primo Ministro Wen Jaobao ha evocato la possibilità di allentare l’accumulazione di riserve in Dollari. Poi, i currency swaps tra la Cina, l’Argentina, il Brasile e diverse altre economie emergenti per realizzare gli scambi commerciali in Yuan anziché in Dollari. Infine, contestualmente all’annuncio del Piano Gaithner e alla massiccia immissione di liquidità ad esso connessa, il Governatore della Banca Centrale di Pechino ha proposto di riprendere in mano il disegno, sconfitto, di Keynes a Bretton Woods nel 1944, ossia una moneta di riserva sganciata dal controllo di Stati sovrani. Una moneta da approssimare gradualmente attraverso l’emissione da parte del Fondo Monetario Internazionale di SDR (Special Drowing Rights). Il G-20 anche su tale nodi di primaria rilevanza geo-politica ha compiuto un passo decisivo: I 20 hanno autorizzato il Fondo a finanziarsi direttamente sul mercato ed a creare moneta globale sovra-nazionale per 250 miliardi di Dollari, ossia quasi 10 volte l’ammontare creato dal 1969, quando la soluzione fu messa in campo per prevenire, senza successo, la fine del gold standard. La redistribuzione di poteri nelle istituzioni di Bretton Woods e la stabilizzazione del sistema monetario globale attraverso il potenziamento del Fondo Monetario e l’inevitabile ridimensionamento del Dollaro sono condizioni necessarie per l’avvio di una domanda globale equilibrata. Solo così, le immense risorse in valuta accumulate dalle economie emergenti, Cina in particolare, possono essere liberate per spostare gradualmente l’asse del loro sviluppo dalle esportazioni alla domanda interna, orientata verso la green economy. Solo così, le classi medie USA possono essere affiancate dalle classi medie delle economie emergenti per ribilanciare la domanda globale. Solo così, per guardare ai nostri orticelli, il made in Italy può tornare a crescere. Solo così, il mediterraneo ritorna al centro dei flussi commerciali ed offre opportunità di sviluppo al Mezzogiorno, grande questione nazionale rimossa. La ridefinizione delle governare globale ha altri tasselli decisivi. In breve: l’introduzione di standard ambientali e sociali ai commerci globali, attraverso la revisione delle clausole del WTO, la positiva conclusione del vertice di Copenaghen sull’ambiente ed il potenziamento dell’ILO, in un difficilissimo equilibrio tra diritti da tutelare e barriere protezionistiche surrettizie da evitare; la sfida energetica; il controllo dei movimenti di capitale di brevissimo e breve periodo; la regolazione della competizione fiscale. Su tale ultimo capitolo, il G-20 di Londra ha avviato un’offensiva contro i paradisi fiscali. È un atto significativo, tanto più perché compiuto sotto la regia del Primo Ministro del Regno Unito, un Paese che fino a pochi mesi fa aveva sempre risolutamente contrastato gli interventi contro i paradisi fiscali. Tuttavia, l’obiettivo, come ripete Mario Monti, è frenare la competizione fiscale tra Stati (e all’interno degli Stati). La competizione fiscale tra Stati rompe i patti di cittadinanza, in quanto legittima l’inequità nella tassazione delle fonti di reddito: le fonti più mobili, il capitale finanziario e l’imprenditorialità, ricevono un trattamento preferenziale rispetto al lavoro. Gli interventi di politica economica da parte dei governi nazionali, a finalità redistributive o di crescita, hanno sofferto negli ultimi 2 decenni, oltre che per l’offensiva ideologica delle forze neo-liberiste, anche per la lenta, ma crescente, erosione delle basi imponibili più mobili. Da un lato l’intangibilità politica dei patrimoni immobili, dall’altro l’impossibilità tecnica di catturare i patrimoni ed i redditi mobili hanno schiacciato lo spazio dell’equità fiscale e contribuito a impoverire le classi medie.

Un aspetto centrale per il New Deal globale è la rivitalizzazione delle organizzazioni dei lavoratori. É, innanzitutto, un inversione culturale da compiere. L’ideologia dominante, nutrita anche dall’arroccamento dei diretti interessati, leggeva il sindacato come residuo del mondo fordista, arnese inservibile nell’universo dell’information and comunication technology, della società degli individui. La crisi in corso ha ammaccato tale lettura.

Ora è più chiaro che senza organizzazione collettiva, il lavoro viene mortificato e svalutato. Non ci può essere democrazia delle classi medie senza sindacati forti e rappresentativi. Non è un caso che il presidente Obama ha costituito una Task Force on Middle Class Working Families ponendo tra i suoi obiettivi la ri-regolazione del mercato del lavoro e dei diritti sindacali (labor standard). Come non fu un caso che, per realizzare il New Deal, il Presidente Roosevelt firmò nel 1935 il Wagner Act, ossia una legge federale per i diritti sindacali nei luoghi di lavoro. Certo, la rivitalizzazione delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici non può avvenire per legge. Deve avvenire a partire dai luoghi di lavoro, sul territorio, nelle mille e disarticolate forme dell’attività produttiva. Una sfida formidabile che deve stare a cuore alle forze politiche riformiste tanto quanto alle organizzazioni del lavoro.

Insomma, il lavoro è l’epicentro etico e politico del New Deal globale. Il lavoro da ridefinire nella sua natura economica e sociale. Il lavoro da riconoscere nella molteplicità delle forme contrattuali e giuridiche. Le forze rifo miste non possono dedicarsi soltanto al nobile obiettivo di “ridare dignità ai poveri”. Devono ridare dignità al lavoro, unica via per inverare la democrazia delle classi medie, intensa come patto di cittadinanza in grado di dare ad ogni lavoratore e lavoratrice pieni ed effettivi diritti economici, sociali e politici e ragionevoli probabilità di mobilità sociale ai suoi figli. Insomma, il nostro patto costituzionale. Invece, in questi anni, il lavoro ha perso specificità nel discorso pubblico. È diventato una componente indifferenziata delle forze produttive. Ha perso la sua funzione fondativa della cittadinanza democratica, dell’identità sociale della persona. Il lavoro è stato retrocesso a funzione di accumulazione di potere d’acquisto per realizzare l’individuo nella dimensione del consumo, dimensione rilevante, ma non esclusiva dell’identità della persona.

Ovviamente, nessuna nostalgia per il conflitto ideologico ed astratto tra capitale e lavoro. Ma, nemmeno rassegnazione all’ideologia dell’impresa come luogo dell’interesse generale interpretato naturalmente ed esclusivamente dalla proprietà. Tra le due contrapposte ideologie esiste un spazio ampio per indagare la natura del lavoro, tanto più in un Paese abitato dal popolo delle partite Iva e ricco di micro-imprese con uno o due dipendenti. Il lavoro da rivalutare, infatti, è anche il lavoro autonomo, il lavoro dell’uomo artigiano descritto da Sennett. È un’indagine da fare per fondare l’autonomia culturale dei riformisti. Insomma, i riformisti per essere riconoscibili devono ripartire dal lavoro. Il lavoro è pilastro del neo-umanesimo.

Infine, il New Deal globale non può fare a meno dell’Unione Europea. L’Unione Europea è la forma più avanzata di governo multilaterale e democratico della globalizzazione. È esempio per la costruzione di altre unioni regionali, in Africa, in America Latina, in Asia, cardini di un multilateralismo efficace.

L’Unione Europea ha sul terreno economico e sociale asset di potenzialità straordinaria per giocare la partita in corso e segnare la transizione: le sue istituzioni di welfare e l’euro. Ma, l’Unione Europea gioca di rimessa. È divisa. Le sue leadership sono prigioniere di una visione ottocentesca dell’interesse nazionale.

La riforma della governance globale presupporrebbe una profonda svolta politica nell’area euro per istituire un effettivo governo dell’economia mediante una specifica cooperazione rafforzata. La maturazione politica dell’area euro dovrebbe essere il presupposto per l’unificazione della rappresentanza nelle sedi di governance multilaterale, in particolare nel G-20 e nelle rifondate istituzioni multilaterali di Bretton Woods. Il G-8 non ha più senso. Senza lungimiranza politica, le leadership europee favoriranno la strutturazione di un G-2 di fatto, costituito da Stati Uniti e Cina. In sintesi, la transizione in corso richiede uno sforzo di fantasia e determinazione politica oltre il campo della finanza. La finanza come capro espiatorio è una scorciatoia gattopardesca. Pertanto, introdurre legal standards per la finanza a livello globale è, indubbiamente, importante, ma la transizione in corso richiede visione e capacità politica tali da saper condurre in porto una vera e propria fase costituente a livello globale. Una sfida impossibile o almeno radicalmente contraddittoria alle culture politiche delle destre, segnate da comunitarismo esclusivista, negazione dell’altro da se, corporativismo territorialista, visione ideologica dei meccanismi di mercato o statalismo arbitrario e liberismo assistito. Una sfida elettiva, invece, per le forze di origine socialista e cattolica segnate dall’universalismo, consapevoli del primato della politica nelle società democratiche.

In conclusione, senza passi avanti verso un New Deal globale rischiamo una lunga fase di stagnazione. Un contesto pericoloso. Insistere con il riformismo in un solo Paese consegna le classi medie spaventate alle destre populiste e protezionistiche. Soltanto cooperando per un New Deal globale le forze riformiste possono ritrovare slancio e costruire un futuro aperto e giusto per una comunità globale.