Per uscire dalla recessione e per salvare l’euro occorre mettere fine alla moderazione salariale e promuovere una politica economica continentale centrata sulla crescita dei salari.
Da 12 anni la Germania viola le regole europee che prevedono che non si possa avere un saldo positivo della bilancia commerciale superiore al 6% del Pil nella media di tre anni.
La regola è prevista per evitare che i paesi forti scarichino su quelli deboli gli squilibri commerciali – con una perdita di benessere che si manifesta in disoccupazione e deflazione salariale – e per mantenere la stabilità dell’euro nel lungo periodo. Il surplus della Germania verso il resto dell’area euro si è annullato negli ultimi anni attraverso il minore export anziché via maggiore import, che è calato. Come conseguenza la domanda interna dell’area euro è risultata più debole, l’occupazione e i redditi da lavoro più bassi.
Insomma, il successo competitivo dei paesi forti ha finito col produrre minore benessere per tutti, compresi i tedeschi, deflazione nell’intera area e – senza coordinamento della politica economica – provocherà l’eutanasia dell’euro. Esportando più del consentito la Germania ha prodotto la sopravalutazione dell’euro e sottratto ricchezza ai Paesi periferici. Per aggiustare i conti, questi ultimi hanno dovuto recuperare la competitività di prezzo attraverso deflazione e riduzione della domanda – non compensate da politiche espansive nei paesi in surplus.
Un lavoro appena pubblicato di Alessando Caiani ed Ermanno Catullo (“The Effects of Alternative Wage Regimes in a Monetary Union, Journal of Economic Behavior and Organization”) suggerisce che un cambiamento coordinato tra tutti i paesi della zona euro di crescita dei salari non solo influisce sulle dinamiche della domanda, ma produce anche effetti non banali sul lato dell’offerta dell’economia: in particolare, questo processo finisce col rafforzare il processo di selezione delle imprese, spingendo fuori dal mercato le imprese marginali e favorendo la crescita di quelle più produttive.
La deflazione salariale che stiamo sperimentando consente alle imprese meno produttive di sopravvivere, così che il mercato ha un numero elevato di imprese che hanno dimensioni più piccole, meno efficienti e con poca spesa in ricerca. La moderazione salariale in un singolo paese consente di ridurre la disoccupazione, e migliorare la posizione netta sull’estero del paese e la posizione fiscale del governo, ma provoca anche un rallentamento delle dinamiche della produttività del lavoro che tende a indebolire la crescita del PIL reale a lungo termine.
Al contrario, quando l’aumento dei salari si verifica in a modo simultaneo e coordinato in tutti i paesi membri, lasciando così la loro relativa concorrenza posizione inalterata, una strategia inflazionistica salariale coordinata è in grado di aumentare la crescita del PIL reale, la dinamica dell’innovazione e della produttività del lavoro, abbassare il rapporto debito pubblico-PIL, quasi senza intaccare i livelli di disoccupazione.
La crescita dei salari nell’Unione monetaria ha così effetti positivi sul benessere purché essa sia frutto di una politica coordinata di aumenti salariali nei paesi core e periferici. In tal caso, è una via d’uscita dalla recessione che ha colpito le economie europee dopo le turbolenze finanziarie globali e la crisi dell’euro. Se ci fosse la volontà politica di attuare tale coordinamento, la Germania dovrebbe convertire al più presto la propria economia dall’export ai consumi e agli investimenti. Solo così può aiutare l’Eurozona nel suo complesso a uscire dalla spirale contro cui combatte.
Aumentare la domanda, dunque, e abbandonare l’idea di esportare il modello tedesco. Ci vorrebbe una politica europea che sia sostenibile, diventi consapevole che il settore manifatturiero è morente, nel breve periodo aumenti i salari e nel lungo adotti un’ottica di cooperazione europea per investire sulle tecnologie strategiche. La competizione globale richiede massicci investimenti, privati ma soprattutto pubblici, in ricerca e infrastrutture, progetti comuni tra imprese ed università.
Saremo – in questi tempi di nazionalismo diffuso – in grado di ragionare in un’ottica europea per rispondere alle sfide industriali, energetiche, ambientali che la globalizzazione e la rivoluzione 4.0 ci pone?