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Manovra generica, brindano solo gli evasori

Non è un complotto se la manovra presentata dal governo riceve tante critiche. Risulta a dir poco generica e improntata non al keynesismo ma alla reaganomics, paternalistico e assistenziale il “reddito di cittadinanza”, non programmata ed esosa quota 100.

La NADEF (Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2018), che delinea le intenzioni del governo per la manovra 2019 – e sulla quale Sbilanciamoci! sta pubblicando diversi contributi – sta ricevendo molte critiche (“bocciature”) in sede nazionale e internazionale. Sbagliano leghisti e cinque stelle a insultare tecnici, burocrati e giornalisti, lamentando il complotto di poteri forti e il mancato rispetto della volontà democratica. Invero, l’Italia è pieno di burocrati, tecnici, economisti e, verosimilmente, giornalisti che hanno dato un qualche credito alle istanze dei partiti ora al governo e sarebbero disposti a valutare con indulgenza qualche iniziale elemento di inadeguatezza da parte di un nuovo ceto politico.

Il fatto, però, è che la manovra presentata dal governo da un lato appare, nella parte più condivisibile, “general generica”, dall’altro sposa una cultura che premia e alimenta l’evasione e l’illegalità. Infine dimostra una superficialità nel considerare gli aspetti finanziari e di sistema che lascia presagire una stagione nella quale interventi mal congegnati richiederanno ripetuti aggiustamenti per ovviare agli scompensi e alle discrasie che genereranno.

1) Partiamo dalla parte teoricamente più condivisibile: la volontà di rilanciare il Paese con una politica fiscale espansiva, anche contestando apertamente l’ortodossia Ue. La critica ai parametri Ue, al Patto di Stabilità, al Fiscal Compact, strumenti che hanno prodotto nei Paesi periferici dell’Europa non sviluppo e stabilità, bensì marginalizzazione e recessione, Sbilanciamoci! – non da sola – l’ha portata avanti da quando è nata, nel 1999. Così come la convinzione che un maggiore sviluppo economico possa bilanciare un aumento di deficit e debito, riducendo, attraverso l’aumento del denominatore, i rapporti deficit/PIL e debito/PIL. Condivisibile appare dunque l’esigenza di recuperare risorse attraverso una sostanziale modifica della traiettoria di finanza pubblica e l’idea che siano necessari un grande rilancio degli investimenti e delle infrastrutture, che rafforzino il sistema, e interventi redistributivi, ai fini equitativi e per rilanciare la domanda.

Ciò detto, se si intende portare avanti un’opera di rilancio, peraltro su basi ben diverse da quelle ortodosse, è indispensabile una definizione puntuale del progetto, adeguata nei suoi aspetti tecnici, finanziari, normativi, temporali….

Nulla di tutto ciò si trova nella NADEF, né appare altrimenti in stato di avanzata elaborazione.

Non è impossibile aumentare il tasso di crescita del PIL 2019 dallo 0,9% tendenziale all’1,5%, come si ripromette il governo. Ma, proprio perché l’obiettivo è ambizioso, bisognerebbe illustrare bene come si intende raggiungere questo obiettivo, spiegandolo poi a Bruxelles. Maggiori investimenti pubblici? E’ a dir poco generico. Maggiori investimenti degli enti locali, immediatamente cantierabili? Vuol dire non conoscere i tempi delle amministrazioni locali. Maggiori consumi privati interni? Con quali tempi verranno realizzati e quali i moltiplicatori utilizzati nelle stime?

In Senato il cinque stelle Di Nicola ha chiesto che le critiche alla manovra fossero basate su numeri e fatti; purtroppo è proprio la NADEF che non lo consente, risultando estremamente generica anche con riferimento agli stanziamenti che verranno dedicati a ciascuna delle misure. In mancanza di dati, fatti di una strategia men che generica, quello che il governo chiede è semplicemente un atto di cieca fiducia, pretendendo questo anche dai tecnici, dai giornalisti e dal Paese. Non è cosa buona.

2) Della cultura che premia e alimenta l’evasione e l’illegalità è ben testimone il continuo rilancio, cui si sta assistendo, dei contenuti della cosiddetta “pace fiscale”, che comprende cartelle di importo via via sempre più elevato, con sconti sempre maggiori (via more e sanzioni, parte del dovuto, tutto il dovuto,…), col risultato che viene penalizzato e classificato come “fesso” chi paga ed ha sempre pagato. E’ una cultura che, al tempo stesso, toglie legittimità all’imposizione pubblica, giudicata sempre odiosa ed eccessiva, e sposa una politica di riduzione delle aliquote (la flat tax), a favore soprattutto dei ceti più abbienti (alla faccia della redistribuzione e della progressività), che non potrà essere portata avanti sempre in deficit e, necessariamente, dovrà ad un certo punto tradursi in minore spesa pubblica.

Detto in altre parole: nell’immediato si riducono le imposte aumentando il deficit pubblico (dunque non utilizzando le risorse che si rendono disponibili per rilanciare scuole, investimenti pubblici, infrastrutture, tribunali, salute, …); fra due o tre anni, a fronte di entrate fiscali strutturalmente minori, si dovranno necessariamente ridurre in misura corrispondente i servizi pubblici. Ha fatto bene, in proposito, chi ha evidenziato come i principi ispiratori della manovra non appaiano tanto quelli keynesiani, bensì della Reaganomics.

3) Gli interventi su pensioni e reddito di cittadinanza sono poi esempi di interventi che appaiono, per come annunciati, mancare di una adeguata considerazione degli aspetti finanziari e di sistema e rischiano di generare scompensi e discrasie nel sistema sociale e produttivo.

L’intenzione di rivedere le norme sull’età di pensionamento della riforma Monti- Fornero, che hanno portato lavoratori che si pensavano ormai prossimi alla pensione a dover lavorare tre, quattro, cinque anni più del previsto e parimenti le aziende a doverli mantenere al lavoro, a scapito dei giovani, è in generale condivisibile. Tale normativa è stata originata dalle esigenze del 2011 di far cassa nel breve periodo, anche a scapito di quella flessibilità nelle scelte di pensionamento che costituiva un punto qualificante del sistema contributivo.

Tuttavia l’introduzione come scrive la NADEF di “quota 100 come somma di età anagrafica (62 anni) e contributiva (38 anni) quale requisito per accedere alle misure previdenziali” rischia di essere veramente molto costosa, se si pensa che 500.000 mila persone in più in pensione con pensioni di 15.000 euro l’anno si traducono in una spesa di 7,5 miliardi l’anno e che, poiché l’anticipo del pensionamento sarebbe per molti ben superiore a un anno, dal secondo anno si accumulerebbero le spese di due distinte coorti di pensionati e così via negli anni seguenti, con effetti finanziari ben superiori.

Apparirebbe poi ben strano – anche se la NADEF non ne accenna – che il governo introducesse “quota 100” senza contemporaneamente sterilizzare l’aumento di 5 mesi di tutte le altre età di pensionamento che scatterà dal prossimo 1 gennaio 2019, che porterà a 67 anni l’età minima per il pensionamento di vecchiaia, che diventano 71 anni per i lavoratori che non hanno maturano una pensione pari ad almeno 750 euro mensili.

Insomma, l’introduzione di “quota 100” è norma potenzialmente costosissima e comunque da coordinare attentamente con la normativa pensionistica attuale (lavoratrici che hanno esercitato l’opzione donna, APE, requisito di ammontare minimo pensionistico, …), per garantire sostenibilità finanziaria ed evitare discrasie nel disegno complessivo del sistema.

Nulla di tutto questo è però ancora definito, possiamo solo registrare l’intenzione del governo (senza indicazione dei relativi specifici stanziamenti) nella NADEF e le anticipazioni, spesso contraddittorie e non accompagnate da analisi dei relativi costi (ad esempio la reintroduzione delle cosiddette “finestre” di pensionamento, ovvero di quel meccanismo per cui chi matura il diritto alla pensione può andarci solo dopo ulteriori 12 mesi di lavoro).

Anche la parte sulla cosiddetta “pensione di cittadinanza” a 780 euro, come annunciata, è iniziativa foriera di problemi, se non ben calibrata, per una serie di ragioni. Innanzitutto il costo: se si dessero anche solo 150 euro al mese in più a pensionati sociali, integrati al minimo e invalidi civili, categorie già ora sottoposte alla prova dei mezzi, si dovrebbero pagare poco meno di 2.000 euro annue in più su 4,5 milioni di pensioni, con un costo annuo di quasi 9 miliardi.

Poi, una pensione uniforme per tutti a 780 euro, uguale per tutti, ridurrebbe fortemente gli incentivi alla contribuzione e li annullerebbe completamente per i lavoratori più poveri: a che pro infatti pagare contributi se, una volta in pensione, l’assegno sarà comunque pari a 780 euro mensili?

In effetti, coi parametri attuali del sistema un lavoratore con un salario di 1.000 euro al mese, dopo 40 anni di contributi non maturerebbe ancora una pensione superiore a 780 euro e si troverebbe, dunque, livellato a tale cifra, del tutto a prescindere dall’aver contribuito.

Sia chiaro, in sé una pensione di base garantita a tutti e di importo adeguato è una scelta di civiltà, ma essa dovrebbe essere inserita nel contesto di un riordino complessivo del sistema pensionistico e della relativa contribuzione, che differenzi le forme di finanziamento e mantenga una premialità per i contributi lavorativi. Ma nulla di tutto questo sembra ventilato nella manovra governativa, col risultato che chi potrà evitare di pagare i contributi avrà tutto l’incentivo a farlo.

Anche il cosiddetto “reddito di cittadinanza” dovrebbe opportunamente essere inserito in un contesto complessivo di regolazione della distribuzione del reddito nazionale e di interventi dello Stato a sostegno dei più bisognosi, ma così non sembra essere. Colpisce, nella NADEF, la totale assenza di qualunque richiamo al Reddito di inclusione (REI), introdotto nella scorsa legislatura, eccezion fatta per l’affermazione che le risorse già stanziate per il REI (3-4 miliardi annui) verranno utilizzate per finanziare il reddito di cittadinanza.

Il fatto è che il reddito di cittadinanza, idea sviluppata nell’ambito di elaborazioni teoriche molto avanzate e avveniristiche, per quanto opinabili, di fronte alla critica del “ma allora nessuno vorrà più lavorare”, in casa cinque stelle si è trasformato in un tradizionale strumento di workfare, ovvero di incentivo economico paternalistico all’attivazione lavorativa, un sussidio di disoccupazione condizionato, per quanto di importo e coperture (auspicabilmente) significative.

Da questo punto di vista, il reddito di cittadinanza appare una regressione rispetto al REI, che affianca al coinvolgimento dei centri per l’impiego quello (quando il problema non è esclusivamente lavorativo) dei servizi sociali comunali e che è strutturato non in termini di workfare bensì in termini di livelli essenziale dei servizi, con il dovere per i beneficiari di attivarsi, ma anche il loro diritto ad essere presi in carico (dai centri per l’impiego, dai servizi sociali o da ambedue) nell’ambito di una valutazione complessiva dei loro bisogni.

Di fatto, col REI si è preso atto del fatto che spesso i problemi di individui e famiglie fragili non possono essere risolti solo nell’ambito lavorativo e, al tempo stesso, si è cercato di offrire risposte a fenomeni come la comprovata trasmissione intergenerazionale della povertà e del disagio, che fanno sì che coloro che crescono in famiglie fragili o povere abbiano una probabilità enorme di ritrovarsi nelle stesse condizioni anche da adulti.

Certo, il REI dà troppi pochi soldi, ha una platea ancora insufficiente (ma dallo scorso luglio fortemente ampliata) e centri per l’impiego e servizi sociali faticano ad attivare la presa in carico e ad offrire risposte.

Si poteva intervenire potenziando il REI e accelerando gli investimenti già programmati sui centri per l’impiego e sui servizi sociali, da anni in sofferenza. Nella NADEF, come detto, il REI scompare, nessun accenno è fatto ai servizi sociali e la preoccupazione principale sembra tornare ad essere quella paternalistica che l’individuo disoccupato, che lo Stato sostiene con un reddito, sia poi disponibile a lavorare e non spenda quanto riceve in consumi “immorali”.

Nel sistema contributivo all’individuo vengono restituiti, sotto forma di pensione, solo i contributi versati, con i relativi interessi, cosicché si potrebbe permettere di andare in pensione a qualunque età. Tuttavia, chi va prima in pensione maturerà meno contributi ed avrà una speranza di vita residua al pensionamento maggiore, dunque l’importo della pensione sarà corrispondentemente inferiore. In effetti la riforma pensionistica del 1995, che ha introdotto il contributivo, permetteva il pensionamento a qualunque età compresa fra i 57 e i 65 anni, flessibilità prima ridotta e poi abolita dalla riforma Monti-Fornero.