L’impatto economico e sociale della pandemia toccherà sia il Nord già provato dal Covid-19 sia il Mezzogiorno, per ora meno coinvolto ma più debole. Serve un grande patto sociale su entrambi i fronti, attraverso l’utilizzo dei fondi strutturali europei e del fondo sviluppo coesione. Da “Economia e Politica”.
Allo stato dell’evoluzione della epidemia di coronavirus è impossibile formulare qualsiasi valutazione sul suo impatto economico, che sarà con tutta probabilità assai serio, ma dipenderà da più variabili al momento ignote: in primo luogo la durata dell’epidemia nel nostro paese, i provvedimenti di contenimento disposte dal Governo, le misure di stimolo per l’economia adottate in Italia e auspicabilmente anche a livello europeo, la diffusione del virus nel resto d’Europa e del mondo. Va tuttavia evitato un errore di cui si vedono già pericolose avvisaglie: ritenere che le aree del paese che, al momento, sono state più colpite dall’epidemia siano anche quelle nelle quali si concentreranno maggiormente gli impatti economici negativi, e che quindi convenga predisporre misure per il loro contenimento che siano sbilanciate e concentrate territorialmente.
Certamente è indispensabile indirizzare gli interventi di emergenza di carattere sanitario in proporzione all’estensione e alla gravità dell’epidemia, in particolare in Lombardia, come già si sta facendo. Ma purtroppo l’impatto economico e sociale sarà esteso a tutto il paese; colpirà le aree forti già provate dalla terribile diffusione del Covid-19; e colpirà le aree deboli, al momento relativamente risparmiate: qui si innesterà su un tessuto socio-economico molto più fragile, provato da un decennio di andamenti economici modesti, misure di austerità, mancanza di politiche di sviluppo. Per questo vanno disegnati interventi di politica economica, in particolare attraverso l’utilizzo dei fondi strutturali europei e del fondo sviluppo coesione, che possano raggiungere entrambi gli obiettivi.
E’ possibile fare qualche considerazione sull’impatto territoriale immediato della crisi utilizzando i dati forniti dall’Istat nella “Memoria” presentata al Senato il 25 marzo scorso. L’Istat prova a ricostruire la distribuzione settoriale e dimensionale delle imprese e degli occupati nei settori di attività economica “sospesi” (quelli formalmente chiusi, ad eccezione di parte delle attività svolte in forme di lavoro a distanza) dai due DPCM: quello dell’11 marzo sul cosiddetto “lockdown”, che colpiva particolarmente le attività terziarie, e quello del 22 marzo, che ha disposto il fermo anche di attività economiche manifatturiere. La percentuale degli occupati convenzionalmente “attivi”, appartenenti cioè a settori considerati essenziali, è del 100% in alcuni comparti del terziario pubblico e privato (trasporti e magazzinaggio, informazione e comunicazione, finanza e assicurazioni); scende al 94% per l’agricoltura e al 75% per alcuni servizi professionali; è pari al 55% nel commercio, al 40% circa nell’industria (manifatturiera e delle costruzioni), al 19% negli altri servizi collettivi e personali e infine al 14% negli alberghi e ristoranti.