La proprietà dell’impresa da parte dei lavoratori significherebbe che, anche nel caso di un cambiamento tecnologico labour saving, sarebbero i lavoratori ad appropriarsi degli aumenti di produttività
Nel dibattito sugli effetti del cambiamento tecnologico sul lavoro, uno dei principali argomenti “a discolpa” dell’innovazione, fino a qualche anno fa, era che questa avrebbe semplicemente spostato domanda di lavoro da mansioni manuali a mansioni più qualificate. In effetti si è osservato un aumento dei differenziali salariali sulla base della qualifica nelle maggiori economie industrializzate negli ultimi 40 anni (anche se questo ha anche e forse soprattutto a che fare con la perdita di potere contrattuale dei lavoratori, soprattutto meno qualificati). In ogni caso, quando si parla di “Industria 4.0” molti autori sottolineano come una delle caratteristiche di questo insieme eterogeneo di trasformazioni introduca invece processi di digitalizzazione e automazione anche nelle mansioni qualificate (ad esempio, piattaforme di vendita di servizi intellettuali, o automazione di processi sempre più complessi). L’articolo di Guarascio e Sacchi è molto chiaro nel riportare i termini del dibattito.
Questo ci obbliga a puntare i riflettori su un’altra componente della disuguaglianza –ovviamente centrale anche nelle fasi precedenti – ovvero quella tra i proprietari del capitale fisico dell’impresa e i lavoratori. Una delle caratteristiche di questa fase di trasformazione tecnologica è quella di accelerare potenzialmente lo spostamento della distribuzione del reddito verso i proprietari delle macchine, cioè del capitale che incorpora l’innovazione tecnologica.
La spostamento di quote di reddito nazionale dal lavoro ai profitti negli ultimi decenni è ben documentato: in Europa la quota salari del PIL ha un picco a metà anni ’70 del 65%, da cui cala fino al 56% (dato del 2011, calcolato a prezzi di mercato). L’Italia è uno dei Paesi nel G20 in cui il lavoro perde una quota più importante di PIL: tra il 1970 e il 2014, la riduzione è del 13%. In questo calo, ha un ruolo rilevante la riduzione della quota salari nel settore privato a partire dagli anni ’90. Cosa è successo per spiegare questo scivolamento del reddito a scapito del lavoro? Come sottolinea Andrea Aimar su questo sito, importanti aumenti di produttività non si sono accompagnati a commisurati aumenti dei salari (un grafico eloquente si trova a pagina 8 della pubblicazione OCSE linkata qui sopra). Nelle economie avanzate, questo è avvenuto principalmente per uno scollamento tra produttività e salari all’interno della maggior parte dei settori dell’economia, più che per uno spostamento del peso relativo dei settori (OECD, 2015).
Esistono diverse possibili strade per affrontare questa crescente disuguaglianza, che non si escludono a vicenda. Ne aggiungo una a quelle già menzionate nel dibattito ospitato da Sbilanciamoci: che i lavoratori siano i proprietari delle macchine.
Un recente articolo di Richard Freeman, economista a Harvard, pone la stessa questione: la proprietà dell’impresa da parte dei lavoratori significherebbe che, anche nel caso di un cambiamento tecnologico labour saving, sarebbero i lavoratori ad appropriarsi degli aumenti di produttività. Il contributo di Freeman punta in una direzione importantissima. Con due criticità, a mio avviso. Prima di tutto, Freeman considera che tutte le forme di partecipazione dei lavoratori ai profitti permettano un’appropriazione dei benefici dell’automazione. Questo in teoria è vero, dal momento che in questi casi i lavoratori si appropriano di parte di quei profitti che sono dovuti agli aumenti di produttività. In realtà, la proprietà è un insieme di diritti che include sia il potere di appropriarsi del residuo della produzione (i profitti, appunto), sia quello di adottare le decisioni rilevanti per l’impresa. Questa precisazione è importante perché distingue le cooperative di lavoro dagli Employee Stock Ownership Plans (ESOP). Gli ESOP prevedono che i lavoratori siano pagati in parte tramite azioni dell’azienda dove lavorano, spesso (in particolare negli USA) nella forma di piani pensionistici: questo coinvolge i lavoratori nel rischio d’impresa, rendendo la loro remunerazione dipendente dalla performance, ma senza garantire loro potere decisionale. In questo caso, infatti, le decisioni sono prese comunque sulla base del criterio “un’azione-un voto”, che garantisce il potere decisionale degli azionisti forti. La differenza profonda con le cooperative è che queste ultime sono invece caratterizzate dal principio democratico “una testa-un voto”, che è uno dei principi fondanti del movimento cooperativo. La partecipazione dei lavoratori ai profitti senza potere decisionale rischia di esporre i lavoratori, ancor più di quello che già avviene, alle conseguenze di decisioni non prese da loro. Perché lo sviluppo dell’impresa avvenga in modi che tutelano i lavoratori, la partecipazione ai profitti è sì importante, ma in un quadro di democrazia economica.
In secondo luogo, Freeman presenta la partecipazione dei lavoratori alla proprietà dell’impresa come un’alternativa, sia a una politica di aumenti salariali, sia a una politica redistributiva tramite la leva fiscale. Io credo invece che si tratti di uno strumento che non ne esclude altri, anzi. Spesso le cooperative pagano salari più bassi di analoghe imprese capitalistiche. Nel caso italiano, dove in molti settori le cooperative concorrono in gare d’appalto per lavori pubblici e servizi di welfare, una delle debolezze del modello si manifesta proprio quando la pressione della concorrenza spinge verso il basso i salari. Il sostegno ai salari e la regolamentazione degli appalti rimangono quindi problemi aperti per una buona parte del movimento cooperativo. Non solo: politiche redistributive rimangono necessarie. Innanzitutto perché reddito e patrimonio pesano molto nello stabilire chi “può permettersi di diventare imprenditore” e una loro iniqua distribuzione influenza la possibilità dei lavoratori di assumere quel ruolo. Inoltre, esistono delle differenze strutturali tra lavoro e capitale che rendono più difficile per i lavoratori assumere il rischio d’impresa: un lavoratore che investe mette “tutte le uova nello stesso paniere”, cioè nella stessa impresa, dove invece un capitalista può più facilmente differenziare e spostare il suo denaro. Se la soluzione è quella di incoraggiare il ruolo imprenditoriale dei lavoratori, questo va supportato con politiche di protezione sociale e di stabilizzazione del reddito.
Pur tenendo in conto i limiti di cui sopra, le cooperative dimostrano in larga parte capacità di affrontare crisi e cambiamenti senza scaricare i costi sul lavoro: la stabilità dell’occupazione è una caratteristica delle imprese cooperative in contesti nazionali molto diversi tra loro. Il rapporto EURICSE sulla cooperazione in Italia durante la crisi indica che le cooperative hanno un comportamento anticiclico, con una crescita dimensionale superiore alle SpA, sia con riferimento al valore aggiunto, sia ai redditi da lavoro. Le SpA, al contrario delle coop, hanno hanno cercato di limitare le perdite di redditività riducendo l’incidenza del costo del personale. Tra il 2006 e il 2010, nel campione utilizzato, i redditi da lavoro dipendente nelle cooperative aumentano di circa il 30%, a fronte del 13% delle SpA. Questa differenza è soprattutto dovuta al numero di occupati, mentre le differenze in termini di salari – come già dicevamo- sono molto minori. Inoltre, la percentuale delle cooperative che negli anni della crisi hanno effettuato investimenti (34,2%) è superiore della stessa percentuale sia delle società di capitali (31,8%), sia delle società di persone (24,7%).
Una parte con caratteristiche specifiche, ma estremamente rilevante, dell’Industria 4.0 è costituita dall’”economia delle piattaforme” (da Foodora, a Amazon Mechanichal Turk, a Uber): cosa succederebbe se fossero delle cooperative? Storicamente le cooperative hanno giocato un ruolo importante nel garantire organizzazione e potere negoziale a forme di self-contractors, come i braccianti a fine ‘800, o i facchini nelle stazioni e dei cantieri. Se i profitti generati dal coordinamento di mansioni spezzettate fossero appropriati dai lavoratori, e se le decisioni (i turni, le modalità di ingresso/uscita, la distribuzione delle mansioni per evitare concorrenza interna…) fossero prese dai lavoratori stessi, verrebbe meno una componente di sfruttamento. Certo, non si risolverebbe il problema dello spezzettamento e della “casualizzazione” del lavoro. Il mio invito è quello di affrontare questa discussione con le esperienze già esistenti in questo senso, che hanno sperimentato pratiche di organizzazione alternativa di “piattaforme” di lavoro.