Un’Italia che non cerca una strada che combini progresso ed inclusione precipiterà fatalmente nel segmento più basso nelle catene di fornitura internazionali combinando così nuova e vecchia povertà. corriere.it
Si parla molto di crescita in questi giorni e non solo in Italia. Le economie avanzate sembrano non essere più in grado di promettere quel 2% annuo che ha caratterizzato la dinamica del Pil per trent’anni, a partire dagli anni Settanta.
Questo ha implicazioni molto profonde per le nostre società ed i sintomi del rallentamento, visibili nel calo della crescita della produttività, si cominciano a percepire prima della grande crisi del 2008. L’analisi da fare e le conseguenti proposte non vanno confuse con il dibattito — pur importante — su cause e rimedi delle recessioni congiunturali che sono, per definizione, temporanee. Il Pil dell’area euro cresceva nel dopoguerra a tassi tra il 5 e l’8%. Si è poi stabilizzato intorno al 2% e dall’inizio del nuovo millennio è cresciuto in media appena al di sotto dell’1,4%. L’Italia condivide questo percorso fin all’inizio degli anni Novanta, a partire dai quali si distacca dai Paesi europei e cresce sotto la media. Per noi quindi il rallentamento ha spiegazioni comuni a quelle dei Paesi avanzati ma anche idiosincratiche. Tornerò più avanti su questa differenza. Un rallentamento anche solo di mezzo punto della crescita media nel lungo periodo ha conseguenze enormi sul tenore di vita dei cittadini. E questo perché l’effetto crescita sul livello del reddito è moltiplicativo. Per darne un’idea, gli Stati Uniti sono cresciuti del 1,75% all’anno dal 1870 al 2000 e questo ha fatto sì che nel 2000 raggiungessero i 36.000 dollari di reddito pro capite.
Se fossero cresciuti solo di un punto in meno, in media, per lo stesso periodo, il loro reddito pro capite sarebbe stato di 10.000 dollari, meno di un terzo.
Lo si capisce meglio adottando questa regola: dividi il tuo tasso di crescita per 70 e questo ti indica quanti anni ci vorranno per raddoppiare il tuo livello di reddito. In Italia, se la crescita del Pil pro capite che si era verificata dal 2000 — pari allo 0,019% — dovesse persistere, ci vorranno 3.512 anni per raddoppiare il livello di reddito. Nell’eurozona e negli Stati Uniti, che nello stesso periodo sono cresciuti intorno all’1%, servirebbero 70 anni. In Cina, anche assumendo una media del 6% che è molto più bassa di quella degli ultime due decadi, gli anni sarebbero 12. Questo ci da un’idea di quale sarà la nostra posizione nella distribuzione del reddito mondiale nei prossimi decenni: Europa e Stati Uniti sempre più piccoli nel mondo e un’Italia sempre più debole, sia in Europa che nel resto del pianeta.
Ma non c’è da disperarsi.
L’Italia e i Paesi europei sono ancora relativamente ricchi rispetto al resto del mondo e crescere piano non significa morire di fame. Fino a che punto ci dobbiamo preoccupare? Può la nostra società crescere poco e rimanere felice? La crescita è un fenomeno relativamente recente nella storia. Prima della rivoluzione industriale il mondo sostanzialmente stagnava: i progressi in agricoltura rendevano possibili alti tassi di natalità, ma quando questi diventavano troppo alti rispetto alla capacità di produrre cibo, i bambini morivano di fame e la crescita crollava. La crescita era quindi caratterizzata da cicli lunghi, determinati dalla dinamica della popolazione. Con la rivoluzione industriale e l’avvento del progresso tecnologico tutto è cambiato perché la produttività del lavoro è continuata ad aumentare con l’innovazione. Questo non significa che le economie avanzate siano diventate immuni dai cicli economici e dalle recessioni, ma è da quasi due secoli che — nonostante recessioni regolari — si cresce. Generazione dopo generazione, i figli hanno raggiunto un più alto livello di benessere rispetto ai loro genitori e questo ha alimentato ottimismo anche a dispetto di persistenti ineguaglianze e di aspri conflitti per conquistare diritti che non sono certo stati ottenuti in via naturale. Su questo ottimismo si è basata la fondamentale stabilità sociale delle società occidentali avanzate.
Ma senza crescita la speranza di un futuro migliore sparisce e così pure il consenso, il collante che tiene insieme le nostre società.
Numerosi studi storici dimostrano che la fiducia nel futuro, l’ottimismo e la volontà di progresso sono correlate alla crescita. Periodi di stagnazione portano in genere a una sfiducia generale che mina nel profondo la capacità collettiva di reinventarsi e di creare le basi per il progresso. La decrescita felice non esiste.
Ma non è neanche vero che la crescita in sé porti la felicità.
La rivoluzione industriale ha prodotto una società gerarchica che, come dice bene Daniel Cohen, in un libro di prossima pubblicazione in Italia, ha voltato la schiena agli ideali dell’illuminismo. Quale è il modello di società possibile oggi, in una fase post-industriale in cui l’accelerazione del tasso a cui le macchine si sostituiscono all’uomo riapre una discussione importante sul significato del lavoro per la identità di noi esseri umani?
Crescita, identità, valorizzazione delle persone sono temi che devono essere affrontati insieme.
Siamo di fronte ad una grande trasformazione del lavoro, simile a quella che in un’epoca precedente spostò masse di persone dall’agricoltura all’industria. Oggi la tecnologia sostituisce quello che era il lavoro di ieri e crea nuove occupazioni, ma queste ultime — a differenza che all’epoca della grande trasformazione da agricoltura a industria — sono in gran parte precarie, a basso contenuto professionale e quindi a bassa produttività. Siamo quindi di fronte a un paradosso. Nonostante un’accelerazione del progresso tecnologico, la produttività cresce poco e rallenta da vent’anni a questa parte. Quindi ci sono due fenomeni disgreganti: cresciamo meno e il lavoro è più polarizzato. La combinazione di queste due cose ha creato un senso di solitudine, di pessimismo e rancore che è il male fondamentale del nostro tempo.
Per questo abbiamo bisogno di ridefinire l’idea di progresso, di ritrovare il messaggio dell’illuminismo.
Una proposta politica che lo riproponga in modo non demagogico è ciò che drammaticamente manca ai nostri giorni. Non c’è da stupirsi che la politica non appassioni più nessuno. È davvero triste scegliere tra due rappresentazioni caricaturali della società: una che vuole meritocrazia, incentivi e crescita senza preoccuparsi del destino della maggioranza delle persone e l’altra — pauperistica e revanscista — che invoca a volte la decrescita e a volte ripropone l’identità nazionale come alternativa al vuoto creato dalla parcellizzazione del lavoro. Al di là dei successi elettorali, nessuno dei due messaggi intercetta le domande e l’inquietudine dei cittadini e questo moltiplica l’isolamento e il senso di non essere rappresentati da nessuno, sentimento condiviso da una grande maggioranza, ma presente soprattutto tra i giovani.
Il paradosso del connubio «veloce cambiamento tecnologico e bassa produttività» è più evidente in un Paese di frontiera, come gli Stati Uniti, dove il reddito della classe media è rimasto compresso a fronte di una polarizzazione crescente che ha coinvolto sia lavoratori che imprese.
In Italia le cose non stanno proprio così. I settori ad alto contenuto tecnologico, pur presenti, costituiscono una piccola parte della nostra economia e la nostra stagnazione è la combinazione di fenomeni come quelli descritti, ma anche della persistente arretratezza di una buona parte del nostro territorio. Ma questo non significa che noi siamo immuni al problema. La polarizzazione si ripropone oggi all’interno dei Paesi ma anche tra i Paesi.
Un’Italia che non cerca una strada che combini progresso ed inclusione precipiterà fatalmente nel segmento più basso nelle catene di fornitura internazionali combinando così nuova e vecchia povertà.
L’illusione che isolandosi dal mondo e rinunciando a competere sull’innovazione si possa proteggere gli italiani dai mali del nostro tempo porterà ad un ulteriore abbassamento del nostro tenore di vita. Proporre un programma credibile di riforme che combatta questa visione non può però prescindere da una politica di reinvenzione del lavoro e di riqualificazione educativa in senso ampio che ricostituisca legami e offra a tutti nuove opportunità rimettendo al centro la persona. Questa era tecnologica contiene la promessa di un nuovo umanesimo. Ma se verrà disattesa può produrre il contrario.