Lo sciopero dei professori universitari programmato per l’autunno non è una rivendicazione corporativa, ma una richiesta al governo di invertire la rotta devastante dell’ultimo decennio sulla formazione
Lo sciopero dei professori universitari programmato per il prossimo autunno – con la sospensione degli esami di profitto nel periodo compreso fra il 28 agosto e il 31 dicembre – sta suscitando numerose polemiche perché interpretato come una rivendicazione corporativa di lavoratori privilegiati, con stipendi elevati. La decisione di scioperare deriva da anni di vertenze con il Ministero per avere riconosciuti gli scatti stipendiali fermi dal 2011: trattative che non hanno portato ad alcun esito, a fronte del fatto che a partire dal 2015, alle altre categorie del comparto pubblico è stato accordato il riconoscimento a fini giuridici degli anni di blocco. E’ necessario poi precisare che un ricercatore universitario con venti anni di anzianità guadagna poco più di 2000 euro netti mensili e che un suo collega di altri Paesi europei guadagna almeno cinque volte tanto. A ciò va aggiunto – e non è cosa di poco conto – che i fondi per la ricerca, in molte sedi, sono stati pressoché azzerati, a seguito dei tagli al sistema formativo, praticati con la massima intensità nelle sedi universitarie meridionali, che prosegue ininterrottamente da quasi dieci anni.
L’acquisto di libri, l’abbonamento a riviste, la partecipazione a Convegni nazionali e internazionali – cioè tutto ciò che concorre a produrre una buona qualità della ricerca scientifica in ogni ambito disciplinare – va quindi a gravare sullo stipendio, con la conseguenza, pressoché ovvia, che si acquistano meno libri, si leggono meno articoli scientifici, si partecipa a un numero minore di convegni e, dunque, si fa peggiore ricerca.
Perché questo è un problema anche e soprattutto per gli studenti e le loro famiglie? E’ verosimile immaginare che nella percezione diffusa un professore universitario ha il solo compito di fare didattica e di seguire Tesi di laurea. E’ chiaramente una percezione che non corrisponde al vero. I docenti universitari sono impegnati almeno su quattro fronti: didattica, ricerca, impegni istituzionali, c.d. terza missione. Gli impegni istituzionali riguardano l’assunzione di incarichi (a titolo gratuito) per attività che attengono alla gestione dell’Istituzione: fra questi, presidenza di corsi di laurea, direzione di Dipartimento, Presidenza di Facoltà, coordinamento di Dottorati di ricerca. La c.d. terza missione attiene ai rapporti con il territorio: a titolo esemplificativo, l’attività di divulgazione, nel campo delle scienze sociali, a titolo anche in questo caso gratuito o l’attività didattica nelle scuole.
Si tratta di attività che sono soggette a valutazioni periodiche da parte del Ministero, attraverso l’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca (ANVUR). ANVUR opera così. Cala dall’alto, senza alcuna possibilità di interlocuzione con le associazioni scientifiche e tantomeno con singoli docenti, un elenco di riviste sulle quali i ricercatori italiani devono pubblicare: devono nel senso che l’assenza di loro pubblicazioni in quelle riviste comporta una decurtazione di finanziamenti per l’Istituzione nella quale lavorano. La si potrebbe definire Scienza di Stato.
Il punto essenziale che legittima lo sciopero riguarda la necessaria e comunque auspicabile saldatura fra ricerca e didattica. Nelle condizioni date, e soprattutto nelle sedi meridionali, fare ricerca di buona qualità (che significa appunto avere accesso a ricerche prodotte in altre sedi, soprattutto internazionali) è sostanzialmente impossibile, data l’assenza di fondi e appunto il blocco degli stipendi. Per quanto possa sembrare inverosimile per chi non lavora in Università, l’acquisto di un libro o l’abbonamento a una rivista scientifica è un lusso. Ciò ha ripercussioni immediate ed evidenti sulla qualità della didattica, giacché ricerca scientifica di bassa qualità produce didattica di bassa qualità. A ciò si aggiunge l’estrema difficoltà – per stringenti vincoli di bilancio, niente affatto necessari – di reclutare giovani ricercatori, in una condizione, peraltro, nella quale è possibile reclutare solo con contratti a tempo determinato, ovvero in condizioni di precarietà. Il progressivo innalzamento dell’età media del corpo docente è un’ovvia conseguenza che incide anche sulla qualità della ricerca e della didattica.
Lo sciopero è stato proclamato dal Movimento per la dignità della docenza universitaria, movimento che nasce sulla base della constatazione inoppugnabile del disprezzo o dell’indifferenza dei Governi che si sono succeduti negli ultimi anni nei confronti della cultura e della conoscenza scientifica. E’ appunto innanzitutto una questione di dignità. E’ poi una sacrosanta rivendicazione salariale. Ed è soprattutto un segnale di respiro più ampio, che viene lanciato nel dibattito pubblico e che riguarda il fatto che un Paese che sistematicamente disinveste nella formazione dei suoi giovani è inevitabilmente destinato a un inarrestabile declino (peraltro già in atto): non solo economico, ma anche sociale e civile.
Gli studenti e le loro famiglie dovrebbero essere consapevoli che, nelle condizioni date, si studia e si studierà sempre peggio, che la laurea darà sempre minori opportunità di accesso al mercato del lavoro, che – in un Paese che è stato giustamente definito “non per giovani” – il futuro delle giovani generazioni, almeno per quella parte che è motivata allo studio, è l’emigrazione. E che anche emigrando non si è affatto certi di trovare un lavoro coerente con la qualifica acquisita (non sono affatto infrequenti casi di giovani laureati assunti come camerieri in altri Paesi europei) anche perché, nella competizione globale, le Università italiane – viste dall’estero – perdono costantemente reputazione. Si tratta di fenomeni che già stiamo sperimentando, da anni, con intensità crescente.
Non si riduca dunque lo sciopero dei professori a una mera rivendicazione corporativa. E’ ormai evidente che le politiche formative in Italia sono calibrate sulla base della domanda di lavoro espressa dalle imprese italiane. Ed è evidente che, in questa logica, le Università meridionali vengono penalizzate dal momento che le imprese meridionali – di piccole dimensioni, poco innovative – non hanno bisogno né di forza-lavoro qualificata né di ricerca di base e applicata. Non si spiegherebbe diversamente la scelta di ridurre la spesa pubblica, in regime di austerità, con la massima intensità proprio nel settore della formazione e nell’area del Paese che maggiormente soffre la recessione in corso. E non si spiegherebbero le numerose dichiarazioni di autorevoli responsabili delle politiche per la formazione che vanno nella direzione di distinguere sedi research e teaching, dove nelle seconde si fa esclusivamente didattica. Si può aggiungere che si tratta di una linea irrazionale e miope. E’ irrazionale in quanto basata sulla convinzione (falsificata dall’evidenza empirica) per la quale il depotenziamento della qualità della forza-lavoro, e la moderazione salariale che segue, comprime la domanda interna e non aumenta le esportazioni nette. E’ miope perché, in quella che viene definita ‘economia della conoscenza’, nella quale l’avanzamento tecnico è sempre più rapido, ciò che occorre non è imparare a fare, ma imparare ad apprendere. Le competenze tecniche acquisite oggi diventeranno rapidamente obsolete.
Ad avviso di chi scrive, lo sciopero del prossimo autunno ha valore innanzitutto simbolico ed è una forma minimale di conflitto. Ma può servire. A condizione che l’Università torni al centro del dibattito pubblico e a condizione che il Governo chiarisca finalmente, al di là dei tecnicismi dell’ANVUR, qual è la sua linea politica nel settore della formazione: se intende progressivamente smantellarlo, privatizzarlo, spostarlo quasi interamente al Nord, come sembra di capire, o se è disponibile a far marcia indietro rispetto alle devastanti politiche dell’ultimo decennio.
Leggi qui la lettera firmata da oltre 4000 docenti al Presidente del consiglio dei ministri