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Una rottura epocale in Europa per uscire dalla crisi

L’Italia che vogliamo/L’Unione Europea deve dotarsi di una capacità fiscale propria. Servono misure di tassazione a livello comunitario e un bilancio europeo rafforzato con l’emissione di titoli di debito comuni che finanzino un vasto piano di investimenti per uno sviluppo sociale e industriale sostenibile.

Rethinking Economics Italia è un collettivo di studenti e ricercatori afferente alla rete internazionale di Rethinking Economics, che promuove il pluralismo teorico, metodologico e disciplinare nell’insegnamento universitario dell’economia. Attraverso eventi di autoformazione e di sensibilizzazione aperti agli studenti e alla cittadinanza, Rethinking Economics Italia mira a integrare le lacune della preparazione economica convenzionale. Lo scorso aprile ha redatto un appello per il contrasto alla crisi del Coronavirus che presenta diversi punti di contatto con l’appello lanciato da Sbilanciamoci! per “un’Italia in salute, giusta, sostenibile”: in questo articolo si entrerà nel merito di alcuni di questi, prendendo quindi parte al dibattito aperto.

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Come sottolineato nell’appello di Sbilanciamoci! “In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo”, le regole e i vincoli che costituiscono la governance economica europea devono essere ripensati per guidare il nostro Paese e tutto il continente europeo verso un superamento effettivo dell’attuale crisi e aprire a una gestione dell’economia comunitaria completamente diversa rispetto a quella degli anni passati. Non solo bisognerà ritornare al più presto a parlare delle debolezze dell’attuale configurazione del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), sospeso temporaneamente il 20 marzo scorso con l’attivazione della general escape clause, ma occorrerà soprattutto cambiare passo sul fronte della costituzione di una capacità fiscale realmente comune.

Già prima della crisi epidemiologica, la Commissione aveva aperto un dibattito istituzionale sulla riforma della governance europea, con particolare attenzione proprio al PSC, ammettendone l’inadeguatezza rispetto alla grave stagnazione economica associata a bassi livelli di domanda aggregata e al perdurante rischio di deflazione. Siglato nel 1997, riformato nel 2005, nel 2011 con il “Six Pack” e nel 2013 con il “Two Pack” e il tristemente famoso “Fiscal Compact”, il Patto di Stabilità e Crescita è ormai unanimamente accreditato come un groviglio inestricabile di norme, parametri e clausole di vario genere, la cui crescente complessità ha inibito la sua funzione di stabilizzatore delle politiche fiscali europee e aumentato il grado di discrezionalità nelle scelte della Commissione.

Finora però il principale tentativo di modifica del PSC[1] risiede nella sostituzione della regola del saldo di bilancio strutturale, ossia il saldo di bilancio aggiustato per il ciclo e per le misure una tantum, con la meno nota regola di spesa (o expenditure rule)[2]. Si tratta di una modifica al margine, che non scalfisce la struttura teorica di fondo e quindi non rimedia alla sua inefficacia.

Si consideri a questo proposito che l’obiezione mossa al saldo di bilancio strutturale consiste nel fatto che per calcolarlo occorre misurare l’output gap e quindi il Pil potenziale, due grandezze non osservabili e caratterizzate da evidenti limiti teorici e tecnici; sono indicatori basati sulla funzione di produzione neoclassica, quindi derivanti da una visione dell’economia completamente supply-side[3], il cui computo è soggetto ad ampie discrezionalità. L’OCSE, ad esempio, utilizza il NAIRU, ossia il tasso di disoccupazione di “equilibrio” che non genera pressioni inflazionistiche, mentre la Commissione Europea impiega il NAWRU, cioè il tasso di disoccupazione in corrispondenza del quale il tasso di crescita dei salari nominali non accelera, ottenendo stime drasticamente diverse che si ripercuotono sugli aggiustamenti di bilancio richiesti ai singoli paesi membri.

Alla base dell’expenditure rule vi è invece l’idea che, per ridurre il proprio debito, un paese debba mantenere sotto controllo la dinamica della spesa netta (ossia al netto degli interessi e di altre spese soggette al ciclo), di modo che cresca meno di quanto cresce il reddito potenziale. Si richiede ancora una volta la stima di un reddito potenziale che, seppure non suscettibile delle fallacie tecniche viste sopra[4], soffre delle stesse debolezze teoriche.

Non è dunque messa in discussione una delle distorsioni più evidenti e deleterie indotte dal PSC: la riduzione degli investimenti pubblici come strumento preferito per il consolidamento fiscale da parte di molti paesi. Una riforma seria della governance fiscale europea dovrebbe invertire questa tendenza, ad esempio attraverso l’introduzione di una golden rule degli investimenti, ossia di una regola che preveda lo scomputo dall’indebitamento netto di un paese della spesa per investimenti produttivi.[5] Inoltre, è necessario “allargare” la nozione di investimento produttivo per evitare le critiche secondo cui la golden rule favorirebbe le spese su capitale fisico a detrimento di spese come istruzione e assistenza.

In questo senso, la golden rule proposta dallo European Fiscal Board[6] va nella giusta direzione, poiché si fa menzione di spese per investimento growth-friendly. L’applicazione di tale norma non richiederebbe modifiche ai trattati e difatti è già stata discussa, sebbene timidamente, negli ambienti politici dell’UE[7]; potrebbe quindi costituire un primo passo verso un ritorno, su scala europea, a una politica industriale e, più in generale, alla determinazione politica degli obiettivi di crescita a lungo termine dell’UE. A questo fine si renderebbe però necessario un dibattito molto più articolato e insidioso riguardo la destinazione di questi investimenti pubblici e in generale il ruolo che nuove forme di pianificazione potrebbero giocare.

Ad ogni modo, in assenza di una capacità fiscale comune e di un incremento massiccio del budget comunitario, la maggior parte degli investimenti strategici a livello europeo rimarrebbe sotto l’egida dei governi nazionali; ciò contribuirebbe a favorire estenuanti contrattazioni fra i singoli stati e le istituzioni europee, con la conseguenza di continuare a procedere senza un reale coordinamento strategico. L’eterogeneità nei fondamentali economici dei vari paesi verrebbe così ulteriormente esasperata.

Nell’ottica di predisporre efficacemente l’appianamento degli squilibri macroeconomici, si potrebbe discutere la proposta avanzata da Emiliano Brancaccio di uno Standard Sociale Europeo. Si tratta di un meccanismo che ripristina il controllo sui movimenti di capitali e di merci nei confronti di quei paesi che attuano politiche ritenute non conformi allo Standard definito. Ad esempio, non sarebbero ammesse politiche di defiscalizzazione aggressiva, taglio al costo del lavoro, compressione dei diritti sociali, e violazione delle norme ambientali; si riuscirebbe così ad evitare l’accumulo di surplus commerciale non giustificato dai fondamentali economici.

Anche l’apertura a misure di tassazione a livello comunitario aiuterebbe ad armonizzare le considerevoli asimmetrie impositive tra paesi membri e a favorire l’adozione di misure più incisive per la coesione economica e sociale dell’Unione. Tra queste ultime si consideri l’Iniziativa dei Cittadini Europei per un reddito di base corrisposto a tutti i maggiorenni senza prova dei mezzi o dello stato di necessità, di importo non inferiore alla soglia di povertà relativa di ciascun paese. Il 15 maggio scorso la Commissione si è impegnata a discuterla qualora raggiunga un milione di firme in almeno sette paesi membri entro un anno dal lancio della campagna, previsto per il 25 settembre 2020.

Nonostante la cogenza di un sostegno al reddito di questo tipo, considerati anche i flussi migratori che stanno interessando il continente e le nuove e vecchie forme di povertà che la pandemia ha creato o aggravato, è difficile procedere con l’implementazione di questa misura senza che vi sia un incremento del bilancio comunitario pari ad almeno il 10% del Pil europeo[8]. A finanziamento di una capacità fiscale centrale, due sono le nuove imposte la cui implementazione accrescerebbe l’efficacia rispetto alla sola applicazione nazionale: una tassa sulla ricchezza netta e la cosiddetta imposta sui servizi digitali.

Le misure di contenimento e gestione della diffusione del Coronavirus hanno colpito asimmetricamente le classi sociali, distinguendo tra chi dipendeva da reddito da lavoro e chi da rendite finanziarie o immobiliari. Inoltre, il blocco produttivo ha colpito in particolar modo gli esercenti al dettaglio, favorendo contestualmente le imprese di commercio elettronico e in generale creando una domanda senza precedenti per i servizi digitali, settore che già consolidava fatturati enormemente superiori alle imprese tradizionali.

Forti di queste evidenze, un primo passo sarebbe quindi una wealth tax applicata all’1% degli individui più ricchi, che si stima possiedano il 22.5% della ricchezza privata totale europea. Uno studio di Camille Landais, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman quantifica il gettito annuale di questa tassa all’1.05% del Pil dell’Unione, che sarebbe superiore all’intero bilancio UE di un anno, senza peraltro intaccare la ricchezza del 99% della popolazione[9]. L’implementazione a livello europeo ne aumenterebbe l’efficacia, poiché la cooperazione che si instaurerebbe tra banche e amministrazioni comunitarie neutralizzerebbe il rischio di trasferimenti a fini di elusione fiscale.

Anche il dibattito per l’applicazione di un’imposta sui servizi digitali andrebbe risvegliato e approfondito, nonostante la contrarietà di Malta, Irlanda, Olanda e Lussemburgo alla proposta avanzata dalla Commissione nel marzo 2018 di introdurre un’imposta piatta al 3% sui ricavi superiori a 50 milioni dichiarati in territorio UE dalle multinazionali del digitale. L’asimmetria tra dove gli utili vengono tassati e dove viene creato il valore ha comportato perdite considerevoli per le finanze pubbliche di molti stati membri e ampliato le differenze tra i regimi fiscali nazionali; l’intervento coordinato a livello sovranazionale rappresenterebbe un’inversione di rotta ormai indispensabile.

Una politica fiscale comune dovrebbe inoltre abbinare a una rafforzata capacità impositiva l’emissione di titoli di debito mutualizzato. L’Unione Europea opera un’artificiosa distinzione tra politica monetaria e politica fiscale, con la prima di competenza esclusiva e indipendente del Sistema Europeo delle Banche Centrali e la seconda demandata ai singoli paesi membri; ma tra le due sfere della politica economica vi è un legame molto stretto, e la capacità di mobilizzare risorse finanziarie dipende dalla collaborazione tra autorità fiscale e monetaria. A dimostrazione di ciò, in questi mesi sono stati numerosi gli appelli di rappresentanti politici dei paesi membri rivolti alla Banca Centrale Europea per attuare politiche monetarie congrue e coordinate al sostegno fiscale che ciascuno stato cercava di garantire sul suo territorio.

Nonostante l’atipicità della circostanza storica e la difficoltà di contenere gli effetti asimmetrici dello shock con gli strumenti convenzionali, l’Unione Europea non ha ceduto ad allargare il perimetro istituzionale sancito dai Trattati e dallo Statuto della BCE. Attenendosi all’art. 123 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nessun intervento diretto della Banca Centrale mirato all’acquisto di titoli di debito dei paesi membri è stato predisposto, così come l’emissione di titoli di debito con responsabilità di pagamento in solido si è arenata sulla tenace contrarietà dei paesi del nord Europa.

La recente proposta del “Recovery Fund” costituisce un primo tentativo di indebitamento comunitario che vede la Commissione Europea reperire risorse sui mercati finanziari da destinare ai paesi membri nella forma di prestiti e trasferimenti a fondo perduto; affinché tale strumento rappresenti un preludio a una vera mutualizzazione, è necessario che l’orizzonte temporale di rimborso venga sfruttato per aumentare le fonti di entrata del bilancio comunitario, in modo che l’emissione di eventuali futuri titoli europei sia garantita da un costituito tesoro europeo, e non più dai singoli paesi membri.

Anche diverse forme di temporanea monetizzazione del debito sono state suggerite per aiutare i paesi più duramente colpiti dalla crisi a disporre della capacità fiscale di cui abbisognavano. L’economista spagnolo Jordi Galì[10], ad esempio, propone una forma di helycopter money consistente nell’accreditamento sui conti dei governi da parte della BCE delle risorse necessarie per far fronte all’emergenza, con un risultato contabilmente equivalente all’acquisto e successiva cancellazione dei titoli di stato. Giavazzi e Tabellini[11] suggeriscono invece l’emissione di titoli di stato a lunghissima scadenza o di titoli per i quali non è prevista la restituzione del capitale, che la BCE dovrebbe successivamente acquistare sul mercato secondario per mantenere bassi i tassi di interesse.

Diverse obiezioni di carattere legale sono state sollevate, peraltro non dissimili da quelle discusse in prossimità dell’adozione del “Quantitative Easing”; in quel caso, però, le questioni normative furono abilmente aggirate e giustificate dalla gravità della crisi dei debiti sovrani. In questo caso, invece, l’Eurozona si è confermata una cornice economico-istituzionale refrattaria ai cambiamenti e caratterizzata da distanze siderali nei bisogni dei paesi core e di quelli della periferia.

Per uscire dalla crisi sanitaria e far fronte ai fenomeni strutturali delle crisi finanziarie e della stagnazione secolare, l’Unione Europea deve rivedere radicalmente il suo impianto teorico, riconoscendo alla politica fiscale la facoltà di generare crescita e dotandosi di una capacità fiscale propria che accompagni l’operato dell’autorità monetaria. Si tratterebbe infatti di un progresso metodologico di notevole importanza: l’abbandono dell’approccio delle “finanze sane a tutti costi” di stampo ordoliberale e l’adozione di un principio di “finanza funzionale” (per usare la felice espressione dell’economista keynesiano Abba Lerner), più attenta alla crescita e allo sviluppo sostenibile.

Come ha recentemente scritto Victor Constancio, ex vice-presidente della BCE, “il ritorno in prima linea della politica fiscale nel pensiero economico offre un contesto teorico favorevole a una revisione delle regole fiscali europee”[12]. Partendo dalla riforma ormai ineluttabile del Patto di Stabilità e Crescita si potrebbe innescare a cascata un processo virtuoso di modifica del diritto primario nel sistema politico ed economico dell’UE; verrebbe così predisposto un bilancio europeo rafforzato anche tramite l’emissione di titoli di debito comuni a finanziamento di un vasto programma di investimenti per lo sviluppo industriale e sociale, nonchè di meccanismi di coordinamento sovranazionale efficaci.

Tuttavia, la crescente sfiducia tra i paesi europei e la feroce opposizione dimostrata da alcuni paesi membri a qualsiasi forma di condivisione del rischio e di politiche di investimento comuni rendono questa strategia un obiettivo insperabile. È ragionevole chiedersi se a vedere la luce del nuovo decennio sarà un’Unione all’altezza del momento storico o le consorterie nazionali abbinate al riformismo conservatore.

Note

[1] Si veda su tutte la proposta dello European Fiscal Board nei report annuali 2018 e 2019 e il dibattito che ha preso piede su VoxEU rispetto alle varie proposte di riforma.

[2] Più precisamente, l’expenditure rule già esiste nel PSC sotto il nome di expenditure benchmark. L’innovazione delle riforme proposte sta dunque nell’eliminazione (o in altre proposte meno “radicali”, nella subordinazione) dell’indifendibile riferimento al saldo di bilancio strutturale.

[3] https://sbilanciamoci.info/uneconomia-sostenibile-per-evitare-il-collasso/ di L. Fanti e M. Gallegati.

[4] Si argomenta infatti che la differenza fra la regola di spesa e la regola del deficit strutturale in tema di Pil potenziale risiede in come quest’ultimo viene calcolato. Infatti, in pressoché tutte le expenditure rule proposte, non si stima il livello del Pil potenziale bensì il suo tasso di crescita medio, calcolato tenendo conto degli ultimi 5 anni, dell’anno corrente e delle stime dei successivi 4 anni. Da ciò deriva la conclusione secondo cui la stima del Pil potenziale nella regola di spesa sia molto più stabile delle stime annuali con cui attualmente si misura l’output gap.

[5] Saraceno F. e Dervis K., An Investment New Deal for Europe, settembre 2014.

[6] Annual Report dell’EFB, 2019.

[7] Dombrovskis, Gentiloni e von der Leyen hanno recentemente discusso l’introduzione di una golden rule limitata per gli investimenti pubblici produttivi, con particolare attenzione agli investimenti green e sul digitale: https://www.ilsole24ore.com/radiocor/nRC_05.02.2020_13.29_3894083

[8] L’economista John Muellbauer ha stimato il costo di un reddito di base di 500 euro per i maggiorenni dei 19 Paesi che hanno adottato l’euro in 1.500 miliardi, circa il 10% del Pil europeo.

[9] https://voxeu.org/article/progressive-european-wealth-tax-fund-european-covid-response

[10] https://voxeu.org/article/helicopter-money-time-now

[11] https://voxeu.org/article/covid-perpetual-eurobonds

[12] https://rem.rc.iseg.ulisboa.pt/wps/pdf/REM_WP_0127_2020.pdf