Dietro la rigidità tedesca sull’equilibrio di bilancio, c’è l’obiettivo di consolidare l’oligopolio della propria industria
Se la macroeconomia e il buon senso contraddicono le politiche europee, se una parte consistente degli economisti insiste su un diverso ruolo della BCE e dei bilanci pubblici, perché alcuni leader europei insistono su linee di politica economica estremiste? Soprattutto, perché la Germania impone a tutti gli stati europei l’equilibrio di bilancio (debito e indebitamento), con delle politiche deflattive senza precedenti, tanto da mettere a rischio l’euro, cioè una svalutazione (implicita) del marco pari al 40% del valore reale?
Forse dobbiamo vedere la realtà da un altro luogo. Se l’obiettivo della Germania e dell’area economica di suo interesse “industriale” puntasse a un nuovo equilibrio internazionale? La prima cosa da mettere a fuoco è la particolare struttura industriale tedesca, che riflette una struttura produttiva (soprattutto manifatturiera) sempre più multinazionale, che compensa gli elevati costi del lavoro con sofisticati fattori d’innovazione tecnologica continua e di organizzazione commerciale. Una struttura che ha beneficiato della svalutazione implicita del marco. Questa ha permesso alla Germania e alla sua area economica di riferimento di consolidare avanzi commerciali, pagati sostanzialmente dagli altri paesi europei.
In qualche misure l’industria tedesca deve affrontare il problema della competitività internazionale, ma si rende conto che le politiche adottate non sono più sufficienti. In particolare, la popolazione tedesca non sarebbe mai disposta a sostenere politiche deflattive come quelle adottate dall’Italia o da altri paesi europei. La stessa industria tedesca le troverebbe insopportabili perché incrinerebbe le buone relazioni sindacali e reddituali delle proprie maestranze. In altre parole, le politiche deflattive colpirebbero la classe media tedesca, il vero cuore della società tedesca. Soprattutto l’industria tedesca non potrebbe mai rinunciare al cuore oligopolistico della propria industria, la quale ha maturato vantaggi in tutti i settori produttivi di scala, assecondati da una ricerca e sviluppo senza pari in Europa, capace anche di anticipare la domanda. Si pensi alla green economy.
L’obbiettivo tedesco è quello di consolidare il proprio cuore oligopolistico, facendo leva su un’area economica integrata di subfornitura che rifornisce la propria industria a prezzi contenuti. In questo modo i prezzi finali dei beni e servizi tedeschi potrebbero compensare l’approfondimento della competizione internazionale, senza “intaccare” la condizione materiale dei propri cittadini. Non solo, l’avanzo commerciale della Germania, a questo punto non solo riferito all’Europa, continuerebbe ad essere pagato dall’UE, ma con un ruolo inedito della stessa Germania. Il consolidamento del settore dell’automotive tedesco, a discapito di quello di altri paesi europei, fotografa perfettamente il “potere” tedesco. In questo modo si può spiegare il no della Merkel alla proposta di Marchionne di acquistare l’Opel. Perché avrebbe dovuto accettare? In fondo la crisi del settore avrebbe dovuto suggerire un riequilibrio a livello europeo sul modello dell’aerospazio. L’idea era ed è un’altra. La Germania deve essere il cuore oligopolistico industriale europeo, mentre tutte le altre economie possono ambire a diventare soggetto privilegiato della subfornitura.
Quando Mario Monti afferma che l’accordo europeo (Fiscal Compact) è quello che l’Italia voleva portare a casa, oppure la richiesta esplicita del riconoscimento europeo e tedesco in particolare degli sforzi italiani, a cosa si riferiva? Lo stesso atteggiamento della Francia ed anche della Gran Bretagna sono poco omogenei. La Francia ha maturato un gap industriale con la Germania impressionante: meno 17% nella produzione industriale, sostanzialmente relativo ai beni strumentali. In altre parole la Francia, come l’Italia, non è più un partenr (industriale) tedesco. Può ambire a fere da subfornitura. Diverso è il ruolo finanziario e creditizio. Gran Bretagna e Francia accumulo tensioni, e l’idea della Tobin Tax è forse l’ultima di una lunga serie.
L’impressione delle policy adottate dai grandi della terra, Stati Uniti, Giappone, Germania, Cina, è quella di una battaglia senza esclusione di colpi. Sostanzialmente gli attori coinvolti agiscono in proprio. Come interpretare la spesa di 140 mld di dollari per rafforzare la struttura pubblica della ricerca, della scuola, delle infrastrutture, di Obama?
La crisi del 2007-2011 meritava un’azione coordinata a livello internazionale. In fondo è peggio di quella del ’29. Se non c’è stato coordinamento, forse dipende dalla distanza dei progetti degli attori economici internazionali coinvolti.