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Più autobus, meno armi

La società pubblica Leonardo spa sta uscendo da Industria Italiana Autobus, ormai prossima alla privatizzazione. Invece di investire in un asset strategico per la mobilità sostenibile si preferisce puntare sulla produzione militare. Da Jacobin Italia.

«This one is dedicated to the suit-wearing arms dealers». Questa è dedicata ai trafficanti d’armi in giacca e cravatta. Così recita il brano nel video in cui gli attivisti di Palestine Action tagliano dei cavi internet per sabotare uno stabilimento che produce componenti per i jet da combattimento destinati a Israele.

La fabbrica in questione appartiene a Leonardo S.p.A., una società pubblica italiana partecipata al 30% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e che primeggia nel settore della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza. Già nel 2020 il Forum Disuguaglianze denunciava come lo Stato non sfruttasse simili partecipazioni – di fatto, comprendenti il grosso delle poche grandi aziende innovative rimaste nel paese – per orientare la transizione a un’economia socialmente ed ecologicamente sostenibile. Ma con Leonardo e Fincantieri, abbiamo esempi di imprese a partecipazione pubblica che negli anni hanno addirittura spostato il baricentro del loro business verso il settore militare (in stridente contrasto con la Costituzione), allontanandosi da quello civico e navale.

Da ultimo, Leonardo sta uscendo anche da Industria Italiana Autobus, oramai prossima alla privatizzazione – a cui si aggiungono quelle annunciate di PosteItaliane, Eni ed Enel – e contribuendo a lasciare a un destino incerto quello che poteva essere un campione italiano nella produzione di autobus e un asset strategico per la mobilità sostenibile in Italia.

La privatizzazione di Industria Italiana Autobus

Industria Italiana Autobus (Iia) è un caso esemplare di come lo Stato possa salvare una produzione strategica, farla ripartire, per poi disinteressarsene totalmente, rinunciando a investimenti di lungo periodo o a delineare una direzione precisa su volumi da produrre, nuovi modelli da prototipare, o tecnologie da promuovere per cogliere la transizione alla mobilità elettrica.

Iia è anche una storia di fusioni e accorpamenti di pezzi del settore automobilistico italiano lasciati a sé stessi. Nasce dall’unione della fabbrica Irisbus (ex Fiat-Iveco) a Flumeri (Avellino) – che l’allora Ad Fiat Sergio Marchionne decide di chiudere nel 2012 perché «non ha mai guadagnato una lira nella sua storia» – con la ex BredaMenarinibus, a sua volta nata dalla fusione di realtà produttive che hanno fatto la storia del settore automobilistico italiano. 

La Menarini di Bologna, per esempio, nasce a inizio Novecento come fornitore di componenti per Fiat, per poi lanciarsi nella produzione di mezzi di trasporto pubblico, scrivendo la storia dell’autobus italiano ed europeo e scandendone l’evoluzione tecnologica. Negli anni Ottanta, lo stabilimento di via San Donato occupava 850 dipendenti e produceva 1.000 unità all’anno su 16 modelli base e numerose varianti, a dimostrazione di una considerevole capacità di saper progettare nuovi prodotti. Fa impressione sapere che a metà anni Novanta, dopo la fusione con Breda e la conseguente nascita di BredaMenarinibus, venissero già lanciati autobus a metano, minibus a trazione elettrica e autobus ibridi, con incredibile anticipo sui futuri orientamenti della domanda verso veicoli con emissioni ridotte. «La mobilità sostenibile parla italiano, dal 1919», si legge in una pagina di archivio sul sito di Iia.

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