Le caute aperture del presidente della Bundesbank al programma di acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce. Un’apertura di cui c’è ben poco da gioire
Sta facendo scalpore un’intervista rilasciata pochi giorni fa da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei “falchi” all’interno del consiglio della Bce, in cui per la prima volta ha aperto alla possibilità che la Bce ricorra ad operazioni di quantitative easing, ossia all’acquisto di titoli di stato da parte della banca centrale. Weidmann ha detto:
“Le misure non convenzionali considerate sono in gran parte un territorio poco noto. Quindi dobbiamo discutere sulla loro efficacia, sui loro costi e i loro effetti collaterali. Questo non significa tuttavia che le azioni di quantitative easing siano assolutamente da escludere”.
In effetti la dichiarazione di Weidmann rappresenta un’inversione di tendenza non da poco, in quanto buona parte dell’establishment (politico, monetario e giudiziario) tedesco aveva finora categoricamente escluso l’ipotesi “americana” di un intervento attivo della banca centrale sui mercati sovrani dell’eurozona. Basti pensare alla recente messa in discussione da parte della Corte costituzionale tedesca del programma Omt di Draghi (finora mai utilizzato) per poter acquistare in emergenza titoli pubblici già sul mercato. È probabile che il “falco” della Bundesbank sia stato spinto ad ammorbidire i toni dai dati sempre più drammatici sul tasso d’inflazione nell’eurozona, ormai in caduta libera. Come ha riferito lunedì la Bce, a marzo l’area euro ha registrato il tasso medio più basso da più di cinque anni a questa parte – 0.5% (ben lontano dall’obiettivo della banca centrale del “poco meno del 2%”) –, mentre molti paesi della periferia registrano ormai un tasso vicino allo zero o addirittura negativo (Spagna, Grecia). E infatti si fa sempre più numeroso il coro di voci – dall’Ocse al Fondo monetario internazionale, dall’Economist al Financial Times – che chiede alla Bce di fare qualcosa per arginare il rischio deflazione nell’eurozona. Ovviamente le parole di Weidmann sono lungi dal rappresentare un “via libera” per la Bce; come ha sottolineato il numero uno della banca centrale tedesca, “stiamo parlando di scenari ipotetici, non ci sono decisioni imminenti”. La strada verso il quantitative easing, insomma, è ancora lunga. Ma poniamo che la Bce di qui a poco decida veramente di iniziare a comprare titoli di stato. Che effetto avrebbe questo sulle economie martoriate dell’Italia e degli altri paesi della periferia? Rappresenterebbe veramente la panacea a cui sembrano alludere molti commentatori? Dipende.
Innanzitutto, dobbiamo specificare cosa intendiamo per quantitative easing, e qual è l’obiettivo che ci prefiggiamo di ottenere ricorrendovi. Weidmann e altri della scuola monetarista vedono il quantitative easing come un’arma puramente monetaria, finalizzata ad alleviare le condizioni del sistema finanziario, non degli Stati. Come è noto, infatti, la maggior parte delle banche centrali – inclusa la Fed – non compra i titoli di stato direttamente dal Tesoro, ma dalle banche, in cambio di riserve (il denaro che le banche usano per effettuare pagamenti tra una banca e l’altra) depositate presso la banca centrale. Dovendo semplificare al massimo, l’idea è che aumentando le riserve – e dunque la liquidità – delle banche, queste saranno più propense a prestare soldi alle imprese e alle famiglie, rimettendo così in moto l’economia. Il problema è che questo, anche in quei paesi che hanno fatto un uso massiccio di quantitative easing dall’inizio della crisi, non è avvenuto. Fioccano ormai gli studi che dimostrano che la colossale “campagna acquisti” di titoli di stato americani e mortgage-backed securities da parte della Fed – per un totale di circa 3,700 miliardi di dollari, una cifra pari a circa due volte il Pil italiano – non ha avuto quasi nessun effetto sull’economia reale. Come mai?
La ragione è che il quantitative easing – o meglio, l’idea che esso sia lo strumento migliore per tirare un’economia fuori dalla recessione – si basa su un’interpretazione fondamentalmente errata di come funziona il nostro sistema monetario. Secondo la teoria monetarista o “quantitativa” della moneta – che ha preso piede negli anni ottanta ed è ancora oggi predominante nella maggior parte delle banche centrali, nonché in praticamente tutti i libri di testo di economia – le banche hanno bisogno di riserve in eccesso prima di poter effettuare dei prestiti, e dunque la banca centrale è in grado di controllare la capacità degli istituti di credito di concedere prestiti, attraverso il cosiddetto “moltiplicatore monetario”, agendo sulla riserva obbligatoria delle banche (la percentuale, calcolata sui depositi, di moneta legale che la banca è obbligata a mantenere) e/o aumentando le riserve di cui queste dispongono presso la banca centrale per mezzo delle operazioni di quantitative easing. In sostanza, secondo la teoria quantitativa della moneta, i depositi precedono i prestiti, e le banche non sono altro che un intermediario tra i risparmiatori che depositano denaro e coloro che chiedono i prestiti. Inoltre, come già detto, la teoria implica che le masse monetarie siano sotto il controllo delle banche centrali. A questa teoria fa da corollario un’altra teoria, quella del cosiddetto “wealth effect” (“effetto ricchezza”), che è un sottoprodotto della “trickle-down theory” (“teoria dell’effetto ricaduta”) di reaganiana memoria, duramente criticata anche da papa Francesco. L’“effetto ricchezza” si basa sull’assunto secondo cui i moti virtuosi in economia non dipendono da un aumento della domanda, ma da un aumento del prezzo delle azioni e degli asset, che a sua volta avrà un positivo “effetto ricaduta” sui consumi e sugli investimenti.
Il problema è che la creazione di moneta bancaria segue in realtà un processo diametralmente inverso a quello sopraelencato, come avevano intuito Keynes, Schumpeter e altri grandi economisti del secolo scorso e come sostengono da tempo molti economisti eterodossi (e in particolare quelli della scuola post-keynesiana). Una conferma “ufficiale” in tal senso è arrivata di recente nientedimeno che dalla Banca d’Inghilterra, che in un recente paper (accompagnato da ben due video) ha clamorosamente smentito la teoria quantitativa o monetarista della moneta. Come spiega l’articolo, le banche non sono intermediarie tra i risparmiatori e i mutuatari, cioè non prestano i depositi dei risparmiatori, né tanto meno “moltiplicano” le riserve fornite loro dalla banca centrale. Al contrario, sono i prestiti a creare la moneta. E le banche commerciali da dove ottengono la moneta per i prestiti? Per quanto possa suonare strano alle orecchie di molti, la risposta è che, a livello aggregato, la creano “dal nulla” (proprio come le banche centrali); si limitano cioè a battere dei tasti al computer, e così facendo fanno “apparire” dei soldi (che prima non esistevano) sul conto corrente di un individuo o di un’impresa. Questo vuol dire che le banche non sono vincolate nel concedere prestiti dall’ammontare del denaro precedentemente depositato o dalle riserve depositate presso la banca centrale. Le banche prima effettuano il prestito e solo successivamente, se lo ritengono necessario, si rivolgono alla banca centrale, che è costretta ad accomodare la richiesta di riserve da parte del sistema bancario. Gli unici veri fattori che le banche prendono in considerazione prima di effettuare un prestito sono i loro potenziali profitti e la capacità di rimborso del mutuatario. Questo implica che le banche centrali non sono in grado di controllare direttamente la quantità di moneta che viene immessa nell’economia, che dipende invece dal rapporto domanda-offerta tra le banche e chi richiede i prestiti, ma possono solo influenzarlo indirettamente (in teoria) attraverso la modifica del tasso di interesse al quale rifinanziano le banche con la moneta legale, che a sua volta dovrebbe influire su quello effettivamente applicato dalle banche ai clienti (aumentando o riducendo la domanda). Questo è il motivo per cui in un contesto in cui la domanda e la crescita ristagnano – e dunque le prospettive di guadagno offerte dall’economia reale sono misere (questo vale soprattutto per l’Europa ma in misura minore anche per gli Stati Uniti) – le banche sono riluttanti a investire e a concedere prestiti, a prescindere dalle iniezioni di liquidità (prestiti a basso costo o quantitative easing) attuate dalle banche centrali. Se così non fosse, avremmo assistito a un miglioramento della situazione creditizia anche nell’eurozona, dove la Bce non ha finora fatto ricorso al quantitative easing ma ha pur sempre destinato alle banche circa mille miliardi di euro a tassi d’interesse bassissimi (in questo senso, sarebbe ingiusto definire “restrittiva” la politica della Bce). E invece, come sappiamo, i prestiti alle imprese e alle famiglie, soprattutto nei paesi della periferia, continuano a crollare, registrando il calo più drammatico da più di vent’anni a questa parte.
A cosa è imputabile allora, se non al programma di quantitative easing in sé, la ripresa economica degli Usa, che nonostante tutti i caveat del caso (a partire dai livelli di disuguaglianza senza precedenti) sono riusciti a ridurre il tasso di disoccupazione e a tornare a livelli di crescita pre-crisi? Premesso che gli Stati Uniti presentano condizioni macroeconomiche e politiche ben diverse da quelle europee, la risposta risiede non tanto nelle politiche monetarie espansive perseguite dalla Fed, quanto nelle politiche fiscali espansive attuate dal governo statunitense. Laddove l’Europa, a partire dal 2010, si è imbarcata in una politica suicida di restrizione fiscale estrema (esemplificata dal Fiscal Compact), gli Usa hanno continuato a mantenere un livello di deficit cumulativamente ben due volte superiore a quello europeo, ed equivalente ad un deficit maggiore a quello dell’area euro in media di 5 punti di Pil all’anno, dal 2009 ad oggi. È qui che risiede, in buona parte, il “segreto” della ripresa statunitense. Ovviamente, la politica statunitense di spesa in deficit è stata resa possibile dal programma di quantitative easing della Fed, che ha tenuto giù i tassi di interessi sui bond statunitensi. In questo senso, è possibile affermare che il programma in effetti ha funzionato, ma solo nella misura in cui ha permesso al governo Usa di mantenere un livello di deficit pubblico elevato senza incorrere in un aumento del servizio del debito.
Cosa possiamo dedurre da tutto ciò? Che quando parliamo di quantitative easing è fondamentale distinguere tra quantitative easing inteso come strumento puramente monetario e quantitative easing inteso come strumento monetario-fiscale, in cui l’acquisto di titoli da parte della banca centrale serve a sostenere – anche indirettamente, ossia senza la collaborazione attiva tra autorità monetarie e autorità fiscali – una politica di stimolo fiscale in deficit per mezzo dell’abbassamento dei tassi d’interesse. Come sostengono ormai in molti – e come pare stia cominciando a capire, seppur con lentezza, un numero crescente di economisti e commentatori mainstream – questo è il minimo di cui avrebbe bisogno l’Europa (escludendo soluzioni più radicali, come per esempio una monetizzazione del debito pubblico), e non dell’ennesimo regalo alle banche. Purtroppo Weidmann e altri come lui non vedono il quantitative easing come uno strumento per agevolare politiche fiscali espansive. Come ha sottolineato il presidente della Bundesbank, “il quantitative easing non è da escludere, ma dobbiamo fare attenzione che venga rispettato il divieto di finanziamento pubblico con la stampa di moneta”. È vero invece il contrario: il quantitative easing è utile solo se serve a finanziare la spesa pubblica. Nel contesto europeo, questo vorrebbe dire innanzitutto allentare gli assurdi vincoli di bilanci imposti dal Fiscal Compact. Ma com’è noto questa ipotesi al momento non è sul tavolo. Alla luce di ciò, c’è ben poco di cui gioire nell’apertura di Weidmann.
Detto questo, a voler essere ottimisti, una “terza via” ci sarebbe. Considerando il peso degli interessi passivi che i paesi della periferia continuano a pagare sul debito pregresso (in Italia 80 miliardi di euro l’anno, circa il 5% del Pil), se l’acquisto di titoli di stato da parte della Bce fosse finalizzato esplicitamente a un abbassamento dei tassi di interesse che questi paesi pagano sul debito, questo liberebbe risorse (attualmente destinate alla rendita) che potrebbero essere investite nell’economia reale anche rimanendo all’interno degli attuali vincoli di bilancio. A patto, ovviamente, che l’acquisto di bond non sia legato alle solite conditionalities della troika (come prevede il programma Omt): repressione fiscale, deflazione salariale e riforme strutturali. Si tratterebbe, insomma, di una semi-ristrutturazione del debito – a detta di molti (tra cui anche Reinhart e Rogoff) un passaggio ormai ineludibile per molti paesi della periferia, che infatti rappresenta uno dei punti centrali del programma europei di Tsipras –, che non andrebbe a incidere sullo stock totale del debito (che è quello di cui ci sarebbe realmente bisogno) ma sui tassi di interesse. Non cambierebbe di certo le sorti dell’eurozona, ma rappresenterebbe comunque un primo passo nella direzione giusta.