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Perché è scomparsa la mobilità sociale 

Bassa crescita, forti disuguaglianze, poca istruzione, lavori precari: il risultato è la fine delle opportunità di miglioramento sociale. La società favorisce chi parte avvantaggiato e non ha senso parlare di merito in una società bloccata. Un’anticipazione dal volume “Il merito tradito”.

Negli ultimi secoli il mondo è andato molto avanti, le occasioni per l’ascesa sociale sono enormemente cresciute parallelamente all’incremento del Pil. Secondo la ricostruzione statistica del Pil del Maddison Project Database dell’Università di Groeningen, un guadagno di 6 dollari del 1800 è diventato nel 2018 negli Stati Uniti un guadagno di 130 dollari; e nel Regno Unito, in Giappone e nei Paesi Bassi un guadagno di 100 dollari. Ma la crescita economica, è bene sottolinearlo, esprime il grado di mobilità di una popolazione soltanto nel senso che fotografa il risultato complessivo di un paese. Nulla dice su cosa accade al livello dei gruppi – ciascuno con il suo grado di potere economico e politico – che compongono la società. Non c’è del resto solo la mobilità sociale assoluta  – la crescita del Pil, “la marea che porta su tutte le barche”. C’è anche la mobilità sociale relativa, la competizione fra le persone per salire i gradini della scala del reddito, ovvero il conflitto che contrappone i gruppi sociali. Le forze che determinano la mobilità sociale non sono del resto le stesse che determinano la crescita economica. L’ascesa individuale nel reddito e nello status è infatti qualcosa che è collegato – ma non coincide – con l’andamento della diseguaglianza di reddito.  La mobilità verso l’alto o verso il basso è fortemente condizionata da ciò che avviene prima del mercato, prima delle conseguenze che derivano dalle “imperfezioni del mercato”. Al momento dell’ingresso da adulti nel mondo del lavoro, i diseguali livelli di reddito e di cultura delle famiglie – che causano la diseguaglianza delle “circostanze”  fra i giovani, e il loro diseguale accesso alle opportunità – hanno già esercitato il loro effetto. La possibilità che i talenti dei giovani appartenenti a famiglie “svantaggiate” riescano ad emergere è, a questo punto, almeno in parte, già compromessa. 

Questo libro ha inteso fare un passo avanti nell’interpretazione della mobilità sociale. Tale questione viene inquadrata nel più generale contesto della valutazione dei due obiettivi dell’efficienza e dell’equità, e nell’analisi delle politiche pubbliche rivolte al loro raggiungimento. Il libro argomenta una tesi forte. Oggi registriamo una crescita economica molto lenta e una sostanziale impasse della mobilità sociale. Questi fatti economici sono in buona misura il risultato della perdita non solo di equità, ma anche di efficienza, che il sistema economico subisce a causa della mancata emersione dei talenti di tutti i giovani. Questo è “il” problema della società in cui viviamo. 

A rendere la mobilità sociale “il” problema, c’è una precisa ragione. La coesione sociale sta venendo meno. La classe media si restringe. La società è molto più polarizzata di alcuni decenni fa. I ricchi abbandonano il paese di origine e diventano cosmopoliti. I poveri sono bloccati nel lavoro povero e restano al fondo della distribuzione del reddito. Nel mondo in cui viviamo, una commistione di individualismo e di incertezza, la società avrebbe invece bisogno di un “cemento” che la tenga insieme. Difficile trovarlo, dopo quello che è accaduto a partire dagli anni ’80. Le masse dei lavoratori dell’industria manifatturiera stabilmente occupati dei decenni del primo dopoguerra non erano soltanto una garanzia di ascesa negli stipendi e nel benessere. Erano anche un segnale della funzione del lavoro di rappresentare la garanzia dell’avvenuto empowerment dei lavoratori all’interno del sistema economico capitalistico e perciò di una maggiore coesione all’interno della società. L’avvento del liberalismo ha cambiato tutto. Le grandi organizzazioni politiche e sindacali sono state virtualmente svuotate nei loro obiettivi dalla crisi delle ideologie. Non ci sono più gli ideali assoluti della palingenesi sociale. Ci sono oggi solo i  “valori” della realizzazione individuale, quale che sia il contesto – avvantaggiato o svantaggiato – nel quale ciascuno si muove. Le classi sociali non sono più definite in base ai rapporti di produzione: gli imprenditori-proprietari di risorse da un lato e lavoratori salariati dall’altro, e dall’ascesa dei ceti medi fra i due gruppi fondamentali. Assistiamo allo slittamento lessicale verso la definizione dei gruppi sociali non più in termini ideologici ma generazionali. L’elenco delle classe sociali è infatti compilato in base ad una classificazione per coorte di nascita: i Baby boomers (1946-1964); la Generazione X  (1965-1980);  i Millennials (1981-1996); la Generazione Z (i nati tra i medio-tardi anni Novanta del XX e i primi anni 2010). Il bisogno delle persone di immaginare il futuro dovrebbe spingere le classi dirigenti a proporre idee-guida di fiducia nel futuro. In altre parole, per trarre legittimazione presso una popolazione estremamente frammentata per opinioni ed interessi, il sistema politico ed economico dovrebbe ricorre a segnali concreti di capacità di governo e di progresso. Il più importante è poter vantare una buona capacità di promuovere la mobilità sociale. Quello che invece viene proposto è la ricetta del trickle-down: per promuovere la crescita occorre dare più soldi da investire ai ricchi, e al contempo ridurre il salario dei poveri per favorirne l’occupazione. Una ricetta che ha i contorni della società gerarchica medioevale. È proprio dall’assenza di proposte e di segnali più rassicuranti che nasce la “crisi della democrazia”. 

L’enorme espansione dell’interazione sociale ha posto al centro la questione delle esternalità. Un’esternalità negativa sorge quando un soggetto influenza il benessere di un altro soggetto, senza che questi ne abbia responsabilità e senza che riceva una compensazione. Una società in cui la libertà di un individuo viene limitata dall’agire degli altri e non è una società in cui la libertà di tutti sia rispettata. Le limitate chance di una buona vita delle persone “svantaggiate” – prima del mercato e poi nel mercato – sono una forma di esternalità. La compressione della libertà dei soggetti svantaggiati è un’enorme iceberg, di cui nella realtà dei mercati in cui operiamo non vediamo che la punta. Per analizzare i fenomeni di esternalità, occorre un quadro interpretativo che dia spazio all’analisi delle esternalità. L’agire individuale va esaminato nel contesto dell’”interdipendenza sistemica” fra le persone (si veda Francesco Farina, Lo Stato sociale. Storia, politica, economia, Luiss University Press, 2021). Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: la disoccupazione tecnologica causata dall’automazione; il licenziamento perché l’impianto di una multinazionale chiude per essere delocalizzato in un paese a più basso salario; una domanda di lavoro povero operato da una piattaforma digitale. Queste, e tante altre, sono tipiche situazioni del mercato del lavoro che riflettono esternalità negative riconducibili all’asimmetria di potere fra impresa e lavoratori. La distanza fra l’idea di libertà come diritto a non subire esternalità negative in seguito alle azioni altrui, ed un funzionamento del sistema economico guidato dal profitto di breve periodo perseguito dalle grandi imprese e dalla finanza, si allarga sempre di più. Quando la società è segnata da una forte asimmetria di potere, le persone sono diseguali nei loro diritti, e la mobilità sociale risulta ostacolata. 

Le nazioni avanzate dovrebbero mettere mano alle politiche pubbliche necessarie ad avviare a soluzione questo problema, che ha a che fare sia con il sistema d’istruzione, sia, più in generale, con la distribuzione del potere fra i gruppi sociali. La diffusione dell’istruzione è il primo, fondamentale, fattore di accrescimento del grado di salute di una società democratica. Gli ostacoli all’accesso ad un elevato livello educativo dei giovani “svantaggiati” continuano però ad essere molto forti. Oggi, in tutti i maggiori paesi avanzati, “l’élite dell’istruzione d’eccellenza” coincide ancora con “l’élite del danaro”.  L’equivalente dell’obiettivo dei nobili del ‘700 di assicurarsi un erede maschio al quale trasmettere il proprio titolo nobiliare è rappresentato dall’obiettivo dei genitori ricchi di trasmettere l’opportunità di guadagni elevati ai propri figli, attraverso un ingente investimento di danaro in un’istruzione di eccellenza presso le università d’élite. 

Negli ultimi decenni, mentre la cultura del neoliberismo perseguiva l’assoggettamento della società alle leggi del mercato, la formazione dei giovani che non appartengono alle famiglie dell’élite e della classe media ad alta qualificazione professionale ha perso valore agli occhi delle classi dirigenti. L’idea stessa di una strategia pubblica di innalzamento della qualificazione professionale media della popolazione è stata abbandonata. Lo dimostrano la riduzione del finanziamento all’istruzione pubblica e la “libertà di scelta” all’interno di un menù di indirizzi educativi parcellizzati, che  sembrano per lo più corrispondere ad una domanda di lavoro dequalificata nelle imprese dei settori tradizionali a tecnologia costante e nei servizi “poveri”. Il declinante interesse delle classi dirigenti per una società in cui tutti i giovani siano dotati di un’adeguata formazione culturale si riflette nell’arretramento dello Stato sociale nel settore educativo. L’ideale che vede in un sistema educativo pubblico efficiente ed equo il presupposto della democrazia sta a poco a poco perdendo adepti. La sostanza della democrazia solidale è la cura di “chi sta indietro” fin dalla più giovane età. L’obiettivo “dell’eguaglianza dei punti di partenza” – dagli asilo-nido pubblici a un’organizzazione dell’istruzione universitaria fondata sulla residenza e sulle borsa di studio per gli studenti “svantaggiati” – sarebbe un compito di primaria importanza, in pari modo per il benessere dei singoli e per il benessere della collettività. Questo compito è uscito dall’agenda dei governi dei paesi avanzati.

D’altro canto, come si è detto, la crescita si riflette sempre meno nella mobilità sociale. Una volta che il motore della crescita economica si è inceppato, l’asimmetria di potere fra le classi sociali viene accresciuta dalla concentrazione delle opportunità di mobilità sociale sempre più in alto nella scala delle posizioni di reddito. L’istruzione è divenuta così – assieme al progresso tecnico – un rilevante fattore di moltiplicazione delle diseguaglianze. Oggi, lo spazio della formazione culturale si è ristretto a quello della selezione dei lavoratori d’eccellenza le cui competenze consentono alle imprese di trasformare le invenzioni scientifiche in innovazioni tecnologiche al servizio del profitto. La mobilità sociale educativa è divenuta una questione di classe. La conseguenza è che un’ampia quota di giovani, privati di una solida formazione culturale e professionale, trovano una guida alla vita non più nell’istruzione ma nella cultura individualistica diffusa dai media e dai social. Dalla svolta impressa dal neoliberismo verso il primato dell’identità individuale è nata la sostanziale cancellazione dalla costellazione delle idee dei giovani dello status civitatis, della dimensione collettiva dell’identità. L’iniquità che oggi caratterizza la condizione educativa non si riscontra solo nell’isolamento dalla società e nell’esclusione dal benessere che penalizza i giovani NEET (Not in Education, Employment or Training). Altrettanto allarmante è l’appagamento che i giovani dei ceti sociali “svantaggiati”, con scarso reddito e istruzione inadeguata, trovano nell’individualismo. Il bisogno di costruirsi una propria personale identità di individui “unici” occulta, in primo luogo a se stessi, la loro effettiva condizione subalterna alle élite della società. 

Nel tempo presente la mobilità sociale si è fermata, e il tempo futuro minaccia di essere quello delle caste, dove ciascuna generazione tende a riprodurre i caratteri, culturali e materiali, della precedente. Lo sviluppo del tempo futuro deve allora tornare al tempo passato, quando l’idea dello sviluppo era sinonimo di progresso. Questa parola conteneva l’individualismo, ma lo intendeva come l’empowerment di tutti i giovani, soprattutto di quelli che ai blocchi di partenza della vita partono indietro. A questi giovani, il potere può darlo solo la cultura. I giovani che si affacciano al mercato del lavoro sono di rado consapevoli di un fatto che l’analisi economica sta mettendo sempre più in evidenza: molto probabilmente lo status economico e sociale che raggiungeranno nel corso del loro percorso lavorativo sarà inferiore a quello dei genitori. Nel dibattito pubblico ha invece sempre più spazio l’idea del “merito” nella sua accezione individualistica, che maschera le diseguaglianze di fondo. Questo svantaggio di partenza dei giovani appartenenti a famiglie disagiate, che non viene mai colmato, tradisce l’idea vera di merito, il diritto dei giovani svantaggiati a mettere alla prova i propri talenti per farli fiorire e realizzare il proprio progetto di vita. È necessario un intervento correttivo del sistema capitalistico, all’insegna di un «universalismo differenziato». Per impedire che l’ideologia neoliberista finisca per costruire una società di caste, le politiche pubbliche devono attribuire un valore maggiore al benessere di chi è svantaggiato; per rendere gli individui eguali l’unica via è trattarli in modo diseguale. La «società giusta» è quella che realizza l’«equità nell’istruzione». I giovani ai quali l’ambiente famigliare e sociale preclude un futuro dignitoso vanno sostenuti in tutti i gradi dell’apprendimento.

Il libro è una critica dell’esistente. Nei suoi capitoli si sottolinea l’impasse cui la mobilità sociale è andata incontro a causa delle scelte fatte nei paesi avanzati dalle imprese e dai governi. È in gioco la distribuzione delle chances di un futuro sostenibile fra persone che partono da circostanze ed opportunità sempre più diseguali. L’alternativa è questa: dare ai gruppi svantaggiati la dignità di eguali chance di vita, oppure lasciare che l’ideologia neoliberista finisca per intrappolarli nella società delle caste. In un mondo la cui cifra è l’individualismo senza limiti, la scelta di questa seconda via è destinata ad aumentare le fragilità individuali. É certo possibile che l’attuale impasse sia solo temporanea. Se però la “forma del gioco” del capitalismo non verrà corretta, il nostro domani potrebbe vedere la scomparsa della mobilità sociale. “Il tempo sta per finire” è lo slogan coniato dai movimenti ecologisti per attirare l’attenzione sul deterioramento dell’ambiente che incombe sull’umanità. “Il tempo sta per finire” va bene anche per dire che la cura della formazione culturale per tutti non va abbandonata, pena il tramonto della speranza di una società più dinamica e più coesa.