I dati sono chiari: la sanità pubblica è stata pesantemente de-finanziata negli ultimi 10 anni. Crescono sanità privata e spesa a carico dei cittadini, esplodono le disuguaglianze territoriali. Si deve ripensare la governance del sistema, a partire dalla determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni.
La questione della legislazione concorrente sulla tutela della salute, dei punti di forza e delle criticità dell’attuale assetto istituzionale, delle disuguaglianze che ha generato fra le Regioni è sicuramente la questione sulla quale, superata il prima possibile questo tempo di emergenza, bisognerà discutere; e bisognerà farlo con responsabilità e senza le facili approssimazioni o i salti in avanti privi delle opportune condizioni di garanzia cui il dibattito sul tema delle cosiddette autonomie differenziate ci aveva abituato nei mesi passati.
Anche perché, misurata con la lente di un’emergenza che riguarda la comunità e la necessità di un approccio strategico e capillare al territorio, e non solo il singolo paziente e l’ospedale come isola di cura e di eccellenza, anche una sanità considerata di qualità come quella lombarda ha rivelato lacune e inefficienze imponenti.
In questo contributo, però, ci si sofferma maggiormente su tre aspetti che, pur acuiti dalle differenze fra Regioni, riguardano tutto il territorio nazionale allo stesso modo: l’aspetto del definanziamento della spesa pubblica in sanità; l’eccessiva rigidità indotta nell’investimento per la salute dal meccanismo dei tetti di spesa; l’incremento della spesa sanitaria da parte dei cittadini, per lo più in modalità diretta, out of pocket.
Di tagli e definanziamenti
Non appassiona l’approccio per sofismi di chi asserisce che non ci siano stati dei tagli veri e propri nella spesa sanitaria degli ultimi anni. Perché al di là dell’aspetto lessicale, quello che è innegabile è che rispetto al bilancio pubblico, a partire dal 2007, ci sia stato un de-finanziamento continuativo della spesa sanitaria e una flessione drammatica dopo il 2009.
Facendo riferimento all’ultimo Osservatorio civico sul federalismo in sanità di Cittadinanzattiva, che raccoglie e rielabora fonti ufficiali, si riportano qui solo alcuni dati che dimostrano la portata di tale de-finanziamento. La nostra spesa sanitaria procapite è fissata a 2.551 euro, nei dati del 2017, e questo vuol dire che, nel contesto dei Paesi dell’Ocse, spendiamo meno della media europea, oltre che di Germania, Olanda, Francia, Regno Unito, e, a partire dall’anno 2018, anche di Malta. La crescita dell’economia italiana tra il 2010 e il 2018 è stata in media dello 0,3% annuo, mentre la spesa sanitaria pubblica nello stesso periodo perdeva parallelamente peso rispetto al Pil, passando dal 7,1% del 2010 al 6,6 del 2018, ben al di sotto di quanto impegnato da Paesi come Regno Unito (7,6%), Francia (9,5%) e Germania (9,6%).
Nel periodo 2015-2018 il nostro Paese ha fatto registrare una crescita nominale del Pil del 2% e un incremento della spesa corrente dell’1,5%, mentre la spesa sanitaria è aumentata dell’1%. Il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) ha conseguito nel periodo 2010-2018 economie di spesa per 12 miliardi rispetto ai tendenziali, con una riduzione progressiva dei margini di risparmio solo negli anni più recenti. Dunque, dire che la sanità non sia l’ambito di welfare che più ha pagato per garantire il rispetto dei vincoli di bilancio e la stabilità economica vuol dire negare l’evidenza.
Davanti a questi dati si indebolisce l’assunto, per anni insinuato, poi affermato, infine gridato, secondo il quale la spesa del nostro Servizio sanitario nazionale non sia sostenibile tout court poiché fuori controllo. A dire il vero, nell’emergenza coronavirus, tacciono tutti coloro che fino a poche settimane fa continuavano a sostenerlo con forza, forse perché il Servizio sanitario nazionale, al netto delle difficoltà di un’emergenza di questa portata, sta dimostrando ancora una volta di essere uno straordinario strumento anche di tenuta sociale per il nostro Paese, pur costando poco in assoluto e in relazione con gli altri Paesi.
L’argomento della sua insostenibilità dunque è da accantonare definitivamente, prima ancora che per altre motivazioni, per una di ordine prettamente economico: dal 2007 al 2017, attraverso interventi sistematici e rigorosi, la spesa sanitaria pubblica è stata messa sotto controllo e ha costituito un contributo alla stabilità economica piuttosto che un aggravio.
Questo è avvenuto in virtù di un esercizio di corresponsabilità delle istituzioni, che hanno più o meno faticosamente convenuto su una normativa inedita e fortemente invasiva come quella dei Piani di rientro; ma anche dei cittadini, che hanno dovuto pagare – non solo metaforicamente – lo scotto di tali provvedimenti e che, certamente, avrebbero meritato di essere attori informati, protagonisti e partecipi di queste scelte, piuttosto che destinatari della sommatoria di iniziative il più delle volte sottaciute e dettate dalla necessità di rispondere a problemi congiunturali, se non, in un’ipotesi peggiore, di una strategia strisciante tesa a indebolire il Servizio sanitario nazionale.
Fatto sta che, in un modo o nell’altro, questi dieci anni sono serviti a rimettere sotto controllo la spesa pubblica sanitaria e sono andati completamente a buon segno rispetto al loro obiettivo. Tutte le Regioni in Piano di rientro, le cosiddette “Regioni canaglia”, sono rientrate dal disavanzo o hanno ridotto significativamente la loro quota; oggi, la gran parte del disavanzo residuo è riconducibile ad autonomie speciali, che vi provvedono con risorse proprie (e anche su questo vi sarebbe da fare una riflessione ad hoc).
Di silos e tetti di spesa
Oltre ai Piani di rientro delle Regioni con disavanzo sulla spesa sanitaria, un’altra misura che è stata utilizzata per mettere rapidamente sotto controllo la spesa pubblica in sanità è stata quella di definire silos di spesa, personale, farmaci, dispositivi medici, beni e servizi, acquisto di prestazioni da privato, e soprattutto tetti di spesa rispetto a ciascun silos.
Per fare riferimento soltanto alla spesa di personale, la Legge di Bilancio del 2010 ha sancito per tutte le Regioni un vincolo di spesa e lo ha definito, quale tetto massimo, nel costo sostenuto da ciascuna Regione nell’anno 2004 con l’ulteriore riduzione dell’1,4%. Anche negli anni successivi, fino al 2019-2020 quando per la prima volta si è alzato significativamente il limite, tale tetto di spesa è stato via via prorogato dalla normativa: è evidente che la logica di questa proroga ha agito alla cieca, senza tenere conto né del fabbisogno effettivo di personale nelle varie Regioni e per le varie funzioni né dei meriti di chi già era riuscito a programmare in maniera adeguata ma prudente il proprio personale – e che dunque ha visto ritorcersi contro di lui la sua stessa efficacia programmatoria.
L’impatto di questa miopia anche sull’attuale emergenza è intuitivo. Ma, oltre il carattere di eccezionalità della situazione attuale, la logica dei tetti di spesa non è comunque in grado di gestire le situazioni di sofferenza all’interno di ciascun silos, le “tensioni” dei silos, come le ha definite la Corte dei Conti; impedisce una programmazione che investa maggiormente in un ambito e meno nell’altro per sfruttare le interdipendenze che esistono fra i silos (per esempio, investire sul costo del personale vuol dire ricorrere meno all’acquisto di prestazioni fra privati); e, non ultimo, impedisce di riallocare l’investimento in aree diverse da quella dell’ospedale (perché puntare sull’innovazione anche farmaceutica può significare avere meno costi di ospedalizzazione, come il caso dei farmaci per l’epatite C è in grado di dimostrare).
Sulla rottura di questo meccanismo, la possibilità di una programmazione più strategica dei livelli istituzionali regionali, il contributo di partecipazione rispetto al governo delle politiche sanitarie delle organizzazioni di impegno civico, ci fa ben sperare l’innovazione introdotta dal Patto per la salute da poco approvato, che prevede il superamento dei tetti di spesa e maggiore autonomia per ciascuna Regione nell’allocazione delle risorse disponibili, fermo restando ovviamente l’equilibrio economico complessivo.
Di spesa pubblica e spesa privata
Le considerazioni finora fatte sulle modalità utilizzate per mettere sotto controllo la spesa sanitaria pubblica, efficaci nel perseguire il loro obiettivo, rivelano dunque tutti i loro limiti in una logica di promozione della salute pubblica. E la stessa cosa va detta se si assume, utilizzando altri dati per dimostrarlo, la logica dell’equità. Da questo punto di vista quello che emerge dal Rapporto 2019 della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica è assai rilevante perché evidenzia come il de-finanziamento della spesa pubblica per la salute sia stato compensato, di fatto, dalla crescita della spesa sanitaria a carico del cittadino.
Alcuni dati, riportati dall’Osservatorio civico sul federalismo in sanità di Cittadinanzattiva, lo dimostrano chiaramente: nel 2017 la spesa totale per la sanità era pari a 154,5 miliardi, di cui 117,2 pubblica e 37,3 privata. Il finanziamento pubblico era pari al 74% della spesa totale, mentre la spesa privata out of pocket ammontava al 22-23%; il resto della spesa privata, residuale potremmo dire e coperto da fondi, casse, assicurazioni, era pari al 4-5%.
Considerando questo dato, quello che si può rimarcare rispetto al periodo 2012-2017 è che la pubblica amministrazione continua a essere il principale finanziatore della spesa per tutte le funzioni. Tuttavia nello stesso periodo, a fronte di una flessione dello 0,3% di quella pubblica, quella diretta delle famiglie è cresciuta del 27%. Al suo interno sono quella ambulatoriale, con il 32,5% in più, e quella domiciliare, con il 34% in più, a presentare le variazioni più marcate, anche per la presenza delle liste d’attesa e per l’aumento delle compartecipazioni, con conseguente riduzione delle differenze fra tariffe pagate nel pubblico e nel privato (a chi giova quest’ultima decisione è domanda retorica).
Anche la spesa per l’assistenza a lungo termine è per oltre il 76% finanziata dall’operatore pubblico, ma nei cinque anni osservati, a fronte di un aumento del 4,5% di quella pubblica, quella a carico delle famiglie è aumentata del 14%. Nella spesa out of pocket i dati nazionali e regionali mostrano nette differenze, che seguono l’andamento del reddito medio: al livello regionale, i valori massimi si rilevano in Valle d’Aosta e Lombardia, i più bassi in Campania e Calabria.
Letto in altro modo, anche a partire dalle segnalazioni che riceve ogni giorno Cittadinanzattiva, questo incremento della spesa a carico dei cittadini vuol dire che le possibilità di cura non sono al momento garantite a tutti i cittadini indipendentemente dalla condizione e dal luogo in cui vivono. Anzi, vuol dire che le faglie tra le persone, fra chi vive in una Regione e chi in un’altra, chi in un’area interna dove i servizi sono stati smantellati e chi in un’area più centrale, tra chi ha un certo reddito e chi non lo ha, sono sempre più marcate e sempre più persone sono costrette a rinunciare alle cure perché non sono in grado di permettersele. E, per citare ancora la Corte dei Conti, queste disuguaglianze sono sicuramente riconducibili tanto alla questione delle risorse finanziarie quanto a “una carente governance locale, difficoltà di programmazione della spesa e una dotazione infrastrutturale ancora insufficiente”.
Vi è un dato, più significativo di ogni altro, che dimostra quanto il mancato e/o l’inefficace investimento nella sanità pubblica, il ricorso – quando possibile per i cittadini – alla loro capacità di spesa per sostenere il proprio bisogno di salute, abbia impatti drammatici: è quello relativo alla speranza di vita di ogni cittadino italiano. I cittadini nati in Campania nel 2017 hanno una speranza di vita alla nascita di due anni e sei mesi inferiore di quelli nati a Trento e, in quanto alla speranza di vita in buona salute, i cittadini nati in Calabria nel 2017 hanno una aspettativa di vita di 9 anni e 1 mese inferiore di quelli nati in Emilia Romagna nello stesso anno.
Un altro dato, che comunica con altrettanta evidenza, è quello relativo alla mobilità passiva collegata alla cattiva distribuzione dei servizi o a differenze, reali o percepite, nella qualità delle cure offerte. Sul totale dei ricoveri, la percentuale di ricoveri fuori Regione dei residenti sul totale dei ricoveri in Regione è dell’82,1% nel caso dei cittadini calabresi, del 4,1% di quelli lombardi: e la mobilità passiva, oltre a essere un interessante indicatore di disuguaglianze, ne è causa essa stessa, poiché le Regioni con bassi livelli di assistenza, reali o percepiti, e di conseguenza con saldi di mobilità negativi sono indotte a ridurre la propria spesa sanitaria a scapito, in un circolo vizioso, della qualità dei servizi offerti.
Bisogna dunque invertire l’ottica. Se come Paese, e su questo come cittadini responsabili convergiamo senz’altro, abbiamo deciso che la spesa sanitaria pubblica debba essere oggetto di un monitoraggio informato perché basato sui dati, continuativo e condiviso da tutti i soggetti coinvolti, inclusi noi, non è perché l’obiettivo è garantire che i conti tornino, ma è perché miriamo ad attuare la previsione dell’articolo 32 della Costituzione, il diritto alla tutela della salute di ogni individuo indipendentemente dalla condizione e dal luogo in cui vive. E, avendo quella come faro, conveniamo di impiegare le risorse necessarie a garantire un buon livello di salute pubblica e di vigilare e contribuire affinché siano impiegate al meglio: il sistema di sanità pubblica è sostenibile nella misura in cui scegliamo che lo sia ed è superfluo dire, nella fase di emergenza che tutti stiamo vivendo, come questa sia una scelta che spetta, innanzitutto, ai cittadini di questo Paese, con i loro valori, i loro diritti, i loro doveri, i loro bisogni.
Occorre qualche strumento preliminare per andare in questa direzione: dal punto di vista delle norme la determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni, contro cui si infrange anche la possibilità di dare gambe al dettato dell’articolo 120 della Costituzione, e la previsione di un assetto per l’assistenza territoriale e domiciliare che abbia la stessa cogenza che il decreto 70 ha avuto per l’assistenza ospedaliera. Come strumento di valutazione e pianificazione, al quale dovrebbero poter accedere con facilità tutti i cittadini, l’implementazione della nuova griglia di valutazione dei Livelli essenziali di assistenza, che giustamente misura le Regioni sulla base della loro capacità di risposta, distintamente, in ambito ospedaliero, in ambito distrettuale e in ambito di prevenzione.
Già sapendo da una prima sperimentazione che le insufficienze di maggior rilievo, anche per Regioni considerate virtuose, sono in area distrettuale e nella prevenzione, proprio gli ambiti in cui occorre investire per far fronte ai fenomeni dell’invecchiamento della popolazione e della cronicizzazione delle condizioni di salute. La stessa determinazione che è stata utilizzata per i Piani di rientro dei bilanci, può e deve essere utilizzata per programmare Piani di rientro dei Lea, Piani che garantiscano l’allineamento della risposta di salute in tutte le Regioni. È la stessa idea di sussidiarietà a consentirlo prevedendo che sia il livello più vicino al cittadino quello che opera per l’erogazione dei servizi, ma che livelli superiori debbano intervenire con tutti gli strumenti di governo, controllo, valutazione e intervento diretto se i servizi non sono erogati o lo sono con una qualità inadeguata.
* Anna Lisa Mandorino è vicesegretario generale di Cittadinanzattiva