Finito il chiasso sulla regola ambigua del 30 per cento, dei figli degli immigrati a scuola non si parla quasi più. E invece si dovrebbe parlare molto: di rendimento, criteri, strategie, risorse. A partire dai dati sui voti e sulle carriere scolastiche, che suonano un allarme sul quale si può ancora intervenire
Tutti a discutere appassionatamente, l’inverno scorso, della sostenibilità nelle nostre aule scolastiche di quote superiori al 30 per cento di allievi di provenienza straniera. E poi, alla fine, diffuse e fin troppo trasversali soddisfazioni per la deroga in extremis di Gelmini a proposito di quelli nati in Italia. Cosa c’è di meglio, in fondo, di un ministro che con una prima decisione dà soddisfazione ai leghisti e con una seconda, che non nega la prima ma la svuota, mostra di tener conto anche delle opposizioni ? La politica , spesso, si accontenta di poco. Oggi, certo, non c’è nessuno in grado di misurare quanto quel disastroso messaggio – una minaccia, i ragazzini stranieri, per il successo scolastico degli italiani – abbia contribuito all’innalzarsi della temperatura xenofoba del paese. E neppure c’è chi si dia la pena di verificare se non abbia per caso rafforzato, invece che tenere sotto controllo, i processi di polarizzazione in atto già da tempo. Le scuole degli italiani da una parte, le scuole “troppo” miste dall’altro. Ma è un fatto che tra il prima e il dopo la cura non c’è nessuna differenza; i plessi che superano la fatidica soglia, in maggioranza scuole dell’infanzia e scuole primarie, erano meno del 3% e a quel livello sono rimasti: p { margin-bottom: 0.21cm; }per la precisione, 1620 su 58.000. Se di patologia si tratta, è evidente che la ricetta si è rivelata inefficace. In primo luogo perché, come sapeva bene fin dall’inizio anche Gelmini, non si possono deportare gli italiani da Firenze a Prato e i cinesi da Prato a Firenze. E poi perché, come è successo nelle situazioni prese di mira dai media o dall’amministrazione scolastica, a Roma come in altre città, il polverone che si è alzato non ha fatto che acuire le paure delle famiglie italiane che già diffidavano. Ma i guasti restano. Quelli del “messaggio”, e quelli di aver coperto i problemi veri. Di che pasta è l’integrazione che la scuola italiana riesce a fare. Che cosa servirebbe perché tutti, stranieri e italiani, possano avere non svantaggi ma vantaggi dal fatto di trovarsi insieme nella stessa classe e nella stessa scuola. Quale sarà la situazione nei prossimi anni, e come prepararsi ad affrontarla.
Su alcuni di questi temi è tornata recentemente la Fondazione Agnelli1 . I numeri, intanto. Anche se negli ultimi due anni, complice la crisi, l’incremento degli allievi stranieri nella scuola italiana ha subito un rallentamento, nei prossimi dieci la loro presenza è destinata a crescere ancora, e non di poco. E’ in costante aumento, infatti, la percentuale dei figli con entrambi i genitori stranieri sul totale dei nati ( dal 5,5% nel 2002 al 12,60% nel 2008) e già quest’ anno scolastico cominciano a entrare nella scuola primaria i figli del baby boom seguito alla grande regolarizzazione che si è avuta con la Bossi-Fini ( 2002-2003 ). Sta dunque per materializzarsi anche nella scuola media e nella secondaria superiore quel sorpasso delle seconde generazioni che oggi si riscontra solo nelle scuole per l’infanzia e nelle due prime classi della scuola primaria, dove già i figli di stranieri nati in Italia sono più numerosi di quelli arrivati dopo. Emergeranno, e già emergono, bisogni educativi diversi se non altro perché saranno sempre di più i figli di genitori stranieri che la lingua italiana la imparano da piccolissimi e prima di entrare nella primaria, negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia. In altri paesi, per esempio Canada e Australia, ma anche Olanda e Danimarca, il fenomeno ha prodotto un rapido allineamento dei loro risultati scolastici a quelli dei coetanei autoctoni, in certi casi anche risultati medi migliori per la maggiore determinazione a utilizzare la scuola come strumento di riscatto e di emancipazione dalla minorità sociale e professionale delle famiglie d’origine. E in Italia? Non è un buon segno che non ci sia grande attenzione né all’interno della scuola né tanto meno nella politica alle due grandi malattie che compromettono i percorsi formativi dei ragazzi stranieri: i ritardi scolastici e la segregazione formativa dopo la scuola media nei rami meno prestigiosi del sistema, dal punto di vista culturale e per le prospettive di inserimento professionale.
I ritardi scolastici, un potente fattore di demotivazione e di abbandoni precoci, sono imponenti. In sintesi, se nella secondaria superiore gli studenti italiani in ritardo sono il 20%, un ritardo superiore al 20% si riscontra, per gli studenti stranieri, già in terza elementare. Che poi schizza in alto, fino al 70%, nella secondaria superiore. Gli italiani in corso, lungo tutto il ciclo dell’istruzione, sono l’82,6%, gli stranieri in corso solo il 55%. Il modello di integrazione scolastica italiana – argomentano i ricercatori della Fondazione Agnelli – sembra basarsi essenzialmente su strategie di “rallentamento”. Non è granché, diciamocelo. E per di più è spiegabile, forse, per i minori ricongiunti in età scolare che con l’emigrazione cambiano scuola, insegnanti, amici, lingua, contesti familiari e affettivi. Ma è evidentemente anomalo invece non solo per chi è nato in Italia ma anche per chi ci è arrivato prima dell’età scolare. Non inciderà su tutto ciò una diffusa impreparazione professionale ad insegnare in classi multietniche , riconosciuta del resto dagli stessi insegnanti 2? Non avrà un suo peso l’assenza di programmi formativi sistematici per lo sviluppo tra gli insegnanti delle competenze necessarie a insegnare l’italiano a chi non ce l’ha come lingua materna? E infine, quanto finiscono col contare nella valutazione delle potenzialità di apprendimento dei ragazzi immigrati i pregiudizi e gli stereotipi che possono esserci anche tra gli insegnanti ?
Contano certamente, per esempio, nell’orientamento ai percorsi post-scuola media. Possibile che sia solo in ragione dei possibili interessi delle famiglie a far conseguire in fretta un titolo spendibile nel mercato del lavoro che l’80% di quelli che proseguono si iscrivano agli istituti professionali e che siano ormai i ragazzi stranieri i più rappresentati nella formazione professionale di primo livello ? Quanto incidono, anche qui, i ritardi scolastici, un italiano insufficiente a misurarsi con i libri di testo e la terminologia dell’apprendimento strutturato, la convinzione diffusa nel contesto sociale che i figli non possano/debbano migliorare di molto rispetto alla condizione dei padri ? E’ un fatto, comunque, che all’accoglienza – che la scuola italiana in questi ultimi vent’anni ha fatto tutto sommato piuttosto bene – non stanno seguendo strategie lungimiranti di supporto all’ integrazione. E neppure un dibattito professionale e politico consapevole dei danni, per il futuro degli immigrati e per il profilo sociale e civile del paese, inscritti in percorsi scolastici di questo tipo. Rallentati e segregati. Il dato, citato anche dalla Fondazione Agnelli, che vede tra i diplomati agli esami di maturità una percentuale inferiore di due punti degli stranieri ( 95,5%) rispetto agli italiani (97,8%), ma le performance più positive ( 98,2%) per gli stranieri nati in Italia non dice molto considerati i numeri ancora molto bassi di partecipazione alla scuola secondaria superiore e l’addensamento pressoché esclusivo nel solo canale dell’istruzione professionale. Dicono di più, invece, i risultati agli esami di scuola media dello scorso giugno3 in cui si registra uno svantaggio forte, di circa 8 punti, nell’ammissione agli esami (12,3% contro il 4% degli italiani) , e un vantaggio pressoché impalpabile nel superamento dell’esame dei nati in Italia ( 99%) rispetto ai nati all’estero (98,9%).
Ci sono, dunque, ben altre emergenze rispetto a quelle su cui è stato scatenato l’allarme lo scorso inverno. Commentando le previsioni sull’imminente sorpasso nelle aule scolastiche delle seconde generazioni, Stefano Molina della Fondazione Agnelli e Rita Fornari dell’Università La Sapienza di Roma non usano giri di parola. La loro idea è che siano necessari rapidi e decisi cambiamenti di passo, nella scuola e nel paese. Prima di tutto nei comportamenti e nelle competenze professionali degli insegnanti che, protagonisti positivi dell’emergenza e della prima accoglienza, dovrebbero d’ora in poi evitare di proiettare sulle seconde generazioni i pregiudizi sedimentatisi con le prime; rivedere e rendere più elastici i criteri di valutazione; imparare – perché non può più bastare “una romantica intercultura del couscous” – a insegnare in classi multietniche. Quello che finora è stato considerato fisiologico , infatti, i ritardi scolastici dei ragazzi stranieri e il loro incanalamento nei settori considerati di minor valore del sistema dell’istruzione, saranno sempre meno tollerati a livello individuale e collettivo da ragazzi non immigrati ma nati qui, desiderosi di riscatto sociale, padroni fin da piccoli dell’italiano di base.
E’ evidente l’utilizzo rovesciato rispetto a quanto accaduto l’anno scorso del concetto di “sostenibilità” . Insostenibili – per gli italiani – non sono ambienti di apprendimento in cui i ragazzi di provenienza straniera siano il 31 o il 50 per cento. Insostenibile è un’integrazione scolastica debole che dà per scontati e immodificabili ritardi, insuccessi, orientamenti che non si spiegano neppure considerando la possibile influenza di condizioni sociali svantaggiate. E insostenibile e pericoloso – anche per la coesione sociale e la convivenza civile nel paese – è lo scarto sempre più evidente tra l’enfasi che nella scuola si dà all’educazione alla cittadinanza in senso pedagogico e una normativa sull’immigrazione che nega anche a chi, nato in Italia, non è tecnicamente un immigrato, il diritto di richiedere lo status di cittadino prima del diciottesimo anno di età. Rovesciamento impeccabile, quello dei ricercatori della Fondazione Agnelli. Ma il nostro paese, per il momento, non ci sente.
1 I figli dell’immigrazione nella scuola italiana. Settembre 2010, www.fga.it 2 L’insegnamento in classi multietniche è considerata la competenza professionale più critica e problematica dai 15.000 insegnanti di nuova nomina interpellati nel 2009 da uno studio della Fondazione Agnelli. 3 Esami di Stato nella secondaria di I° grado, luglio 2010, www.istruzione.it