È stato un perfetto esempio del dialogo tra scienziati e letterati. Fu anche un prezioso collaboratore per le riviste della nuova sinistra, e operò attivamente all’interno del sindacato torinese, a cui si era accostato al tempo dell’inchiesta operaia dei «Quaderni rossi» di Panzieri.
Francesco Ciafaloni, morto due giorni fa, è stato un personaggio molto notevole nella Torino culturale e sindacale dagli anni Sessanta a oggi. Abruzzese di montagna, veniva dalla scienza (laureato in ingegneria) e aveva studiato negli Usa con una borsa, lavorando poi per l’Eni di Mattei fino alla morte di quello. È stato una firma importante dei «Quaderni piacentini», di «Inchiesta», di «Una città», e redattore prima alla Boringhieri e poi per tanti anni all’Einaudi, dove fu amico di Luca Baranelli, con cui scrisse per Quodlibet Una stanza all’Einaudi, uscito dieci anni fa.
Conobbi in una manifestazione torinese lui e Carlo Donolo, un ligure che veniva dalla scuola di Francoforte, e non feci nessuna fatica a convincere Bellocchio e Cherchi ad averli come nuovi e preziosi collaboratori dei «Quaderni piacentini» di cui erano puntuali lettori. Era tra i pochi che davvero sapessero di scienza, e questo gli guadagnò l’amicizia di Italo Calvino. C’era stato il sempre attuale pamphlet Le due culture di Snow, un saggio che denunciava la distanza tra chi sapeva di scienza e chi di letteratura, e Francesco fu, all’Einaudi, un perfetto esempio del dialogo tra scienziati e letterati. Fu anche un prezioso collaboratore per le riviste della nuova sinistra, e operò attivamente all’interno del sindacato torinese, a cui si era accostato al tempo dell’inchiesta operaia dei «Quaderni rossi» di Panzieri, vicino in questo a Vittorio Rieser.
Stupiva di lui la fedeltà all’Abruzzo originario, l’amore per la montagna, il culto dell’amicizia, l’inesauribile curiosità e attenzione per i fenomeni di una società che, dopo anni di grandi movimenti, si andava di nuovo dividendo non più tra settentrionali e meridionali ma ancora e fortemente tra ricchi e poveri, tra borghesi e proletari. E fu il sindacato il suo campo d’interesse più forte. Se ci mancherà è anche perché la sua infinita curiosità e la sua conoscenza del mondo del lavoro sono oggi piuttosto trascurate dalla fiacca e banale cultura della sinistra ufficiale (di «cultura non ufficiale» ne sopravvive ben poca, rispetto al passato).
A distinguermi da lui e da Baranelli fu, rispetto all’Einaudi, soltanto la mia scarsa simpatia per Giulio, di cui mi sembrava difficile vedere il buono che pure aveva, per esserne stato in qualche modo vittima al tempo della mia inchiesta sugli immigrati a Torino. Tra tanti saggi universitari che ogni giorno si sfornano, è difficile trovare degli studi su Raniero Panzieri, che con Foa, e spesso in contrasto con lui, è stato uno degli ultimi grandi esponenti di una cultura politica non legata (e condizionata) dal Pci di Togliatti e di Cantimori.
Figura insolita di letterato e scienziato (e di tradizione contadina), Ciafaloni avrebbe avuto ancora molto da insegnarci se la sorte non si fosse accanita su di lui qualche anno fa ma solo in parte strappandolo alla sua vitalità polemica e alla sua intelligenza delle cose – come testimoniano gli articoli scritti per «Una città» (e altrove), che meriterebbero di venir raccolti in volume.
Ricordo pubblicato anche da il manifesto del 21 giugno 2025