Gli intrecci della finanza con la produzione, il potere economico e il consenso sociale sono essenziali per capire la crisi di oggi. Il peso che ha ora la finanza è diventato insostenibile per l’economia e la società. O si ridimensiona la finanza, o si riduce lo spazio per la democrazia e i diritti sociali
La crisi, manifestatasi inizialmente sui mercati finanziari e immobiliare statunitense, si è rapidamente propagata a livello mondiale assumendo via via contorni diversi, tanto da presentarsi, specie in Europa, prima come caduta della produzione e dell’occupazione e successivamente, anche per effetto della recessione, come una crisi della finanza pubblica, il cui superamento non è stato certamente favorito dalle politiche di austerità adottate per contrastarla.
Il fatto che finanza e produzione, finanza privata e finanza pubblica risultino strettamente intrecciate rende manifesto il carattere sistemico di questi rapporti e induce a una loro analisi più attenta per comprendere i processi in atto e qualificare la critica all’attuale modo di produzione, qualificato correntemente come capitalismo finanziario.
È di particolare stimolo a questo riguardo l’analisi del volume di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini Il film della crisi. La mutazione del capitalismo (Einaudi, 2012, www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Come-la-finanza-ha-rotto-il-compromesso-tra-capitalismo-e-democrazia-15842) che inserisce l’attuale fase all’interno di un processo di lungo periodo, così lungo da comprendere almeno tre cicli storici e l’intero ventesimo secolo, dello sviluppo del capitalismo mondiale. Si tratta di tre fasi economico-sociali nettamente distinte, designate in modo evocativo come Età dei Torbidi (dalla “belle époque agli anni trenta), Età dell’Oro (fino agli anni settanta), Età del Capitalismo finanziario (gli ultimi trenta-quaranta anni). Anche se l’ultima fase, si presenta – come ben documentato da Luciano Gallino con il suo Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, (Einaudi, 2011) – con netti caratteri di dominio finanziario sulla società, ciò non deve far trascurare che anche nelle altre due il ruolo della finanza, per quanto possa apparire più sfumato, non è stato meno importante.
Il rapporto tra finanza e sviluppo è stato oggetto di un lungo dibattito le cui risultanze (precedenti alla crisi) non hanno trovato conferma nei drammatici ultimi sviluppi. Se le conclusioni raggiunte portavano a sostenerne il superamento dei vincoli alla piena libertà dei mercati finanziari per favorire la loro potenzialità nel garantire la crescita dell’economia, la realtà si è incaricata di dimostrare l’infondatezza di tali conclusioni, dato che proprio gli elementi che ne avrebbero dovuto assicurare la potenza e l’efficienza del sistema finanziario (la libertà nella gestione del rischio finanziario e nella determinazione dei volumi finanziari) sono state tra le cause principali della sua instabilità e del suo crollo, e quindi della sua conclamata inefficienza allocativa e distributiva.
Ma se un sistema finanziario ricondotto sostanzialmente, come teoria vuole, a sole relazioni di mercato non è in grado garantire l’efficienza e l’efficacia richiesta, appare necessario ripercorrere la storia dei sistemi finanziari per comprendere i modi attraverso i quali la finanza condiziona lo sviluppo economico e il progresso sociale. Considerando i tre cicli storici prima ricordati è possibile rilevare come gli assetti istituzionali che hanno caratterizzato ciascun periodo sono stati rilevanti nel determinare, nella loro specificità storica, la struttura delle relative economie e società e, nel momento della loro crisi, nel condizionare i modi della loro ristrutturazione economica e sociale.
Per quanto la dinamica finanziaria si presenti nelle tre diverse fasi storiche con caratteri molto diversi, è sufficiente una rapida comparazione per individuare come, nell’evoluzione del capitalismo, emergano almeno due questioni sulle quali voglio richiamare l’attenzione: il ruolo della finanza nello sviluppo industriale e il rapporto tra stato (democrazia) e capitalismo.
Capitalismo finanziario e capitalismo industriale
Sul ruolo della finanza non vorrei sembrare troppo drastico, ma ritengo che il capitalismo è capitalismo finanziario o non è. A sostegno di questa tesi non voglio solo appoggiarmi alla lezione di grande respiro di Giovanni Arrighi (Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, 1996), ma riferirmi ai processi che hanno accompagnato lo sviluppo produttivo delle principali economie nel secolo scorso. Nell’Età dei Torbidi le strutture finanziarie si sono collocate all’interno di un ventaglio delimitato da un lato dall’esperienza tedesca ricostruita dal contributo di Rudolf Hilferding e, da un altro lato, da quella della finanza dell’impero inglese analizzata da Marcello De Cecco. Per quanto in modo diverso e con diversa efficacia, in tutte le esperienze la finanza è stata un fattore decisivo nell’organizzare e sostenere lo sviluppo dell’industria del proprio paese.
Ma anche nell’Età dell’Oro, pur in un contesto istituzionale profondamente diverso, la crescita industriale non è stata immune dalla presenza incisiva della finanza. La crisi delle politiche economiche keynesiane si manifesta in questa fase per l’insostenibilità di una politica monetaria degli Stati Uniti che inonda di dollari il mercato mondiale. Il fatto che la crisi si presenti nella forma di squilibrio monetario e non esplicitamente finanziario non deve trarre in inganno; in un mondo in cui i movimenti di capitale con l’estero sono soggetti a controllo e gli scambi valutari avvengono a un tasso di cambio fisso, il dollaro convertibile è lo strumento inevitabilmente necessario per trasferire-trasformare le disponibilità finanziarie estere in attività finanziarie interne. Il crescente intervento delle banche anglosassoni sui mercati internazionali, testimoniato dalla rapida espansione del mercato dell’eurodollaro, è motivato proprio dall’esigenza di sostenere le strategie di penetrazione delle imprese multinazionali statunitensi nei mercati esteri (in primis, in quello europeo) per contrastare la perdita di competitività sul mercato interno.
Per quanto riguarda la recente realtà globale è ampiamente noto come lo spazio occupato dalla finanza si sia molto ampliato, attraverso l’espansione di strumenti finanziari innovativi di grande sofisticatezza. Se ciò può indurre a ritenere che gli attuali assetti finanziari abbiano poco in comune con quelli dei due periodi precedenti, una tale conclusione può essere giustificata per la forma, mentre penso si debba essere un po’ più cauti per la sostanza.
La finanza è infatti un elemento strutturale del capitalismo e la struttura che ha assunto nelle diverse fasi storiche ha avuto un peso nel determinare i caratteri specifici delle economie e delle relative società. In un contesto di imprese produttive tendenzialmente anarchico in quanto i principali attori, le grandi imprese private operanti su mercati crescentemente oligopolistici, competono attraverso aggressive pratiche predatorie (o, alternativamente, praticano accordi collusivi) risulta decisiva la funzione che di fatto la finanza svolge nel programmare, coordinare e monitorare gli sviluppi interni del capitale industriale. In assenza di un tale intervento, il quadro macroeconomico difficilmente presenterebbe quel grado di stabilità necessario a garantire l’espansione dei profitti.
Si è a lungo pensato che una politica monetaria di semplice controllo del livello dei prezzi potesse assicurare la stabilità del quadro macroeconomico costringendo le diverse componenti industriali a trovare una composizione accettabile dei loro interessi. Ora, la realtà è quella di un sistema bancario che ha ormai acquisito il potere di determinare il volume e la composizione degli aggregati monetari. La possibilità di creare credito per le imprese e di trasferire-trasformare le disponibilità di fondi da settore a settore, da soggetto a soggetto, permette alle banche (e, per estensione, al sistema finanziario) di orientare, positivamente o negativamente a seconda delle condizioni e delle politiche, la struttura produttiva del paese e di incidere, sempre positivamente o negativamente, sulle condizioni macroeconomiche complessive.
Lo spostarsi del potere di influenzare lo sviluppo e la stabilità economica dalla banca centrale alle banche (e alla finanza) appare con evidenza quando si rileva che la politica monetaria delle banche centrali è di fatto gestita in appoggio alle strategie delle banche private. Non è azzardato esemplificare questa tendenza richiamando i casi della politica della Bundesbank a supporto della banca mista tedesca o della politica monetaria della Federal Reserve a sostegno delle strategie delle imprese multinazionali, in modo indiretto nel secondo dopoguerra – come si è già detto – o direttamente tramite i grandi gruppi finanziari statunitensi, come sta avvenendo ora. Al di là degli strumenti tecnici che la finanza utilizza nel tempo, si può ritenere che ad essa è di fatto affidato dalle classi dirigenti del “paese” (nella combinazione di interessi industriali, finanziari e politici specifica in ogni fase e per ogni nazione) il ruolo di dare coerenza all’anarchismo delle molteplici e mutevoli strategie industriali favorendo il movimento economico complessivo nella direzione prescelta dal “governo” (non necessariamente statuale) egemone in quella particolare fase di sviluppo.
Le conseguenze del potere della finanza
Se il rapporto funzionale tra finanza e industria sembra acquisito nelle forme specifiche assunte nell’Età dei Torbidi e nell’Età dell’Oro, esso viene raramente sottolineato nella presente terza Età. La dimensione e la complessità delle attuali relazioni finanziarie tendono senz’altro a oscurare questa sua funzione fondamentale; tuttavia a una più attenta considerazione non è difficile accorgersi che le masse di flussi finanziari e il continuo spostamento degli stock da un settore all’altro, da un paese all’altro, rispondono all’incentivo (di breve periodo) a redistribuire sullo scacchiere globale il capitale industriale con l’obiettivo di privilegiare i luoghi dai quali è possibile estrarre una maggior quota di reddito da capitale da distribuire tra chi lo ha conferito sotto varia forma, incluse quelle derivanti dai processi trasferimento-trasformazione da parte delle istituzioni finanziarie.
Si può obiettare che, nella realtà corrente delle filiere produttive globali, il reddito da capitale potenzialmente estraibile dall’attività produttiva è manifestamente insufficiente a remunerare l’ingente volume delle attività finanziarie esistenti alle condizioni di rendimento richieste dai “rentier”. Si tratta di un’obiezione fondata, che ha il merito di mettere in luce la fragilità dell’attuale modello di coordinamento dell’anarchismo industriale; per svolgere efficacemente la sua funzione, la finanza deve “promettere” ai rentier più di quanto può realisticamente realizzare dal capitale industriale. È noto che le decisioni finanziarie sono prese sulla base dei rendimenti “attesi” sulle varie attività finanziarie; tali rendimenti possono essere ritenuti plausibili per un periodo più o meno lungo, ma certamente non possono essere assunti come certi.
Un loro livello eccessivamente alto – rispetto ai potenziali profitti dal capitale – può essere ritenuto anche a lungo credibile, ma quando il formarsi di aspettative più realistiche rendono insostenibili le attese ottimistiche è vicino il crollo dei valori finanziari, con conseguenti perdite di ricchezza e fallimenti di imprese, come è avvenuto di recente. Una discrepanza tra attese finanziarie e realtà produttive che non sia opportunamente e continuamente corretta genera situazioni di instabilità non solo economica ma anche sociale. Se il processo produttivo non è in grado di fornire il flusso di reddito promesso, per garantire i rendimenti finanziari promessi si amplia la ricerca di nuovi settori da includere nella sfera finanziaria (ad esempio le pensioni, i servizi pubblici, i beni comuni) o si intensifica l’attività speculativa alla ricerca di guadagni in conto capitale; i processi di redistribuzione della ricchezza che ne conseguono favoriscono ovviamente chi ha una migliore conoscenza del mercato e una più efficace pratica finanziaria, ovvero la grande finanza. Di qui l’aumento delle disuguaglianze alimentato dalla concentrazione della ricchezza nelle mani dei più ricchi.
D’altra parte, in simili situazioni di tensione gli aumentati rischi si traducono in un maggiore premio per il rischio richiesto ai debitori, tanto maggiore quanto più economicamente deboli essi sono. Peggiorano quindi le condizioni produttive delle imprese, ma anche quelle di bilancio degli stati i quali, per soddisfare il fabbisogno finanziario, devono dirottare una maggiore quota delle proprie entrate al pagamento degli interessi sul loro debito: il reddito dei rentier (e delle istituzioni finanziarie che intermediano i fondi) viene quindi garantito non solo dal processo produttivo, ma anche dai processi di redistribuzione fiscale.
È una situazione che rende manifesto il fallimento della sedicente capacità della finanza di costituire il soggetto istituzionale capace di sostenere l’apparato industriale e di stabilizzare la situazione macroeconomica. Nel perseguire i propri obiettivi settoriali, centrati sulla garanzia della ricchezza dei rentier, la finanza opera in opposizione alle esigenze della produzione e dell’occupazione. L’anarchismo che in queste situazioni si manifesta all’interno della finanza stessa e che trova espressione nell’elevata volatilità dei valori finanziari, nella crescente incertezza, nella turbolenza dei mercati richiederebbe la presenza di un’autorità esterna in grado di programmare, coordinare e monitorare gli sviluppi interni dello stesso capitale finanziario come condizione prioritaria per ripristinare la sua funzione di sostegno dell’apparato produttivo e di stabilizzazione delle condizioni macroeconomiche. Si tratta di un obiettivo tanto necessario quanto di difficile realizzazione nelle condizioni attuali per la pretesa della finanza di “autoriformarsi” rifiutando, a parte i costosi salvataggi pubblici, qualsiasi intervento esterno di controllo.
La finanza come meccanismo di aggregazione sociale
La posizione “centrale” cha assume l’intermediazione finanziaria tra industria e rentier le attribuisce strutturalmente una seconda funzione cruciale. Infatti per poter svolgere pienamente il coordinamento delle strategie industriali essa deve gestire in modo coerente i rapporti con i soggetti che le mettono a disposizione i risparmi correnti e i più consistenti stock di ricchezza accumulati nel passato. Si tratta di settori sociali molto variegati: imprenditori e proprietari, grandi e piccoli, ceti professionali diversi, appartenenti a differenti aree sociali e territoriali. La finanza deve quindi essere in grado di aggregare attorno agli interessi dell’economia, della finanza e dell’industria, gli interessi di tutti questi soggetti prospettando loro, in quanto possessori di ricchezza (anche medi e piccoli), una redditizia partecipazione al reddito da capitale. Intorno agli interessi della fascia alta di reddito (l’“uno su dieci” dell’analisi di Mario Pianta, “Nove su dieci”, Laterza, 2012) si aggregano quindi anche fasce di reddito medio e basso, convinte che le loro aspettative di consumo (a credito) e i benefici attesi dal welfare “finanziario” (casa, sanità, istruzione, pensioni offerte da assicurazioni private) siano più efficacemente garantiti dal funzionamento dei mercati finanziari.
Tale funzione di raccordo sociale della finanza, di organizzatore sociale, si pone esplicitamente in alternativa con la concorrente funzione di organizzazione politica della società attribuita normalmente alla sfera pubblica e alla politica. Sul terreno del rapporto tra finanza e stato la suggestione che proviene da un’analisi articolata per fasi storiche permette di individuare nettamente le conseguenze che ne derivano per l’assetto sociale. Nel primo periodo, all’inizio del XX secolo, troviamo una stretta commistione tra stato nazionale e banche nazionali e una conseguente subordinazione della società all’interesse nazionale. Nel secondo periodo – il dopoguerra – le esigenze di progresso sociale sono condivise tra stato e imprese, e abbiamo cosiì un rapporto più dialettico tra i due centri organizzativi della società, la finanza e la politica. Nell’attuale fase è evidente il ritorno al lontano passato, con una netta subordinazione del soggetto pubblico e della politica alle direttive di una finanza gestita da una classe dirigente globale e per obiettivi economici sovranazionali.
Non si tratta di meccanici corsi e ricorsi della storia, ma dell’effetto dei diversi rapporti di forza che si sono venuti ad affermare nella società; complessi processi storici hanno favorito un’evoluzione politica che ha visto, in alcuni periodi (il primo e il terzo) il predominio degli interessi economici sui bisogni sociali, mentre nell’altro gli interessi economici sono stati imbrigliati da una pressione sociale favorita dall’affermarsi di un orientamento (keynesiano) verso maggiori tutele sociali. Quindi non un processo ciclico naturale, ma il risultato della minore o maggiore capacità di una società di intervenire sul proprio destino attraverso una politica in grado di modificare comportamenti e istituzioni in un favorevole e stabile compromesso tra necessità sociali ed esigenze economiche.
Il dominio della finanza come espressione dell’egemonia del capitale
In ognuna di queste fasi, il compromesso che si realizza tra economia e società trova sostegno in un corrispondente apparato culturale che si avvale di argomentazioni teoriche (dell’economia, della sociologia, della politica) su cosa è la realtà sociale, come si deve strutturare e come si deve evolvere. Un’interpretazione che, veicolata dai media del periodo, diviene l’ideologia dominante formatrice di un senso comune diffuso. Non è difficile riconoscere all’interno di ciascuno dei tre periodi il pensiero economico-politico che è risultato egemone, e verificare la stretta corrispondenza tra gli strumenti di politica economica messi in campo e l’ideologia che ha permesso di fondare (in maniera più o meno democratica) il consenso nei confronti delle politiche imposte alla società. La combinazione tra imporre le regole economiche e, nel contempo, riuscire ad ottenere il consenso al loro utilizzo è il frutto di precise operazioni culturali, che hanno prodotto l’egemonia di quella specifica società capitalistica. Ma, al di là della loro peculiarità storica, le diverse esperienze del passato indicano come la capacità egemonica di un modo di sviluppo avviene in un contesto di conflitto tra prospettive politiche alternative e prende necessariamente tempo prima di definirsi e consolidarsi. D’altra parte, una configurazione economico-politica messa in discussione perché incapace di soddisfare le aspettative di benessere e di civiltà da essa suscitate prende tempo prima che essa appaia superata da un progetto alternativo. In altre parole, una forma di capitalismo può sopravvivere nelle sue strutture economiche anche quando sia strutturalmente in crisi se l’egemonia culturale è prolungata oltre la manifesta incapacità del sistema economico a soddisfare le condizioni che ne avevano favorito la supremazia. Se ciò dovesse verificarsi, l’instabilità politica e sociale può assumere i contorni preoccupanti di un lungo processo di dominio economico svincolato da qualsiasi realistica prospettiva di progresso sociale e civile e nel quale non è raro che la ricerca di consenso sia sostituita dalla sua imposizione.
Nuove regole, ma soprattutto una nuova egemonia
L’attuale capitalismo non è realisticamente in grado di estrarre dall’attività produttiva globale un valore sufficiente a soddisfare contemporaneamente i crescenti impegni finanziari e la conservazione dei livelli di welfare del mondo occidentale. È necessario quindi avviare la ricerca di un’alternativa in grado di promuovere una crescita sostenibile e un più alto grado di eguaglianza e di consenso sociale.
Se il modello economico esistente non è in grado – nel medio-lungo periodo – di mantenere le promesse di benessere sul quale ha fondato il consenso nei suoi confronti, è inevitabile l’affacciarsi di una ristrutturazione profonda: o del sistema economico-finanziario, o del sistema sociale. O si ridimensiona la preminenza sociale del settore dei rentier, aprendo a una società più equilibrata, o si ridimensionano le attese di civiltà imponendo un contesto di obbedienza e disciplina.
In una situazione in cui il compromesso tra politica e finanza vede la subordinazione materiale e culturale della prima alla seconda, non basta prospettare un progetto alternativo di politica economica che miri a ricondurre le istituzioni finanziarie a una più corretta funzione. Non basta introdurre nuove istituzioni e regole di politica finanziaria che pongano limiti all’azione dell’attuale classe dirigente globale.
È essenziale accompagnare la formulazione di un’alternativa, se non farla precedere, da una pratica diffusa che rivendichi la necessità culturale e la possibilità politica di un radicale riorientamento del governo della cosa pubblica. Per rovesciare la visione dominante della realtà, e contrastare la sua capacità egemonica, è necessario porsi sullo stesso difficile terreno, ovvero sviluppare nelle intelligenze e coltivare nella società una prospettiva in cui sviluppo economico e progresso sociale non siano subordinati al potere della finanza.
Non si tratta di un confronto intellettuale di secondaria importanza, ma di un terreno di scontro prioritario per promuovere – nelle teste delle persone e quindi nel senso comune e nella politica – la convinzione che una società con un più alto grado di uguaglianza e di protezione sociale sia giusta, possibile e conveniente. Per arrivarci, è necessario ridimensionare l’attuale potere, anche culturale, della finanza e sottometterla ad una funzione di sostegno al progresso sociale e civile.