Le politiche di crescita sono diventate un elemento imprenscindibile, per allentare i costi sociali della crisi e per evitare che si avviti ulteriormente, ma vanno realizzate puntando all’equità
Vorrei rovesciare l’ordine dei concetti che compongono il tema di questa tavola rotonda. Non soltanto perché di sviluppo (di crescita, in realtà) si parla molto in questi ultimi mesi, ma anche perché è opportuno avere qualche punto fermo. Qualcuno da tempo ha sottolineato l’opportunità di azzerare la crescita o di attivare un processo di decrescita (gli studiosi del Club di Roma e Georgescu-Roegen tra i precursori; tra i principali fautori: S. Latouche; in Italia, G.Ruffolo, M. Cacciari ed altri) per salvaguardare il futuro del pianeta e, con esso, dell’umanità. Si tratta di persone stimabili e devo dire che condivido le loro preoccupazioni, che non possono essere dismesse molto facilmente sul piano analitico. Però, dello sviluppo abbiamo necessità. Deve trattarsi non di sola crescita e deve essere sostenibile, ma dello sviluppo non possiamo fare a meno. Una prospettiva, alla John Stuart Mill, di stato stazionario, nella quale non ci sia motivo per ‘urtarsi e scavalcarsi’ e ci sia spazio per la contemplazione della natura e per la riflessione, è certo densa di aspetti esteticamente, ecologicamente ed eticamente apprezzabili. Temo però che una tale prospettiva sarebbe possibile soltanto con una redistribuzione drastica delle attuali ricchezze, nell’ambito dei paesi sviluppati e, soprattutto, fra questi e i Pvs. Infatti, lo stato stazionario sarebbe accettabile soltanto da chi abbia attualmente una posizione di privilegio nella società. Ma la redistribuzione potrebbe avvenire soltanto attraverso scontri violenti e con costi umani inimmaginabili. La redistribuzione è necessaria, non può essere affidata al trickle down, ma ad un’azione riformatrice lunga e tenace, dove il termine riformatrice è inteso nel senso in cui esso era usato da Caffè.
Passiamo ora alla crisi. Nella crisi siamo immersi. Quali ne sono i costi immediati e quali i riflessi sulle prospettive di sviluppo? I costi immediati sono enormi. Non mi occupo dei costi politici della crisi, per i riflessi perniciosi che essa può avere, come già in passato, sulle velleità autoritarie nei paesi più coinvolti. Noto soltanto che nell’accanimento punitivo contro la Grecia si dimenticano i colonnelli. E la Germania dimentica che le politiche deflazionistiche nella repubblica di Weimar aprirono la strada al nazismo, la cui memoria essa sembra aver rimosso per qualche non troppo strano fenomeno di psicologia di massa. I costi in termini di povertà, disoccupazione, sacrifici e tragedie personali sono comunque enormi. La crisi è nata anche per fattori di natura distributiva, ma sta ulteriormente peggiorando la distribuzione del reddito, almeno a livello dei paesi sviluppati, quelli che più ne hanno risentito. L’unico punto di vista positivo è quello della continua, anche se ridotta, capacità di crescita dei Brics e dei paesi sub-sahariani.
Nelle politiche adottate a livello europeo per fermare la crisi è evidente l’esistenza di un accanimento le cui radici dovrebbero essere oggetto di analisi più approfondita. Forse in questa sede è sufficiente ricordare che la dottrina secondo la quale l’onere dell’aggiustamento deve pesare sui ‘debitori’ è antica. Contro di essa Keynes scrisse e operò (da ultimo, in sede di disegno dell’architettura monetaria internazionale, a Bretton Woods). Caffè non soltanto ne accettò le idee, ma denunciò la deriva del FMI sulla quale ha insistito successivamente Stiglitz. Ma certamente c’è qualche ragione storica e forse etico-religiosa, che si riflette perfino nella lingua (in tedesco, la stessa parola, schuld, indica al tempo stesso debito e colpa). E, ovviamente, i debitori sono i ‘poveracci’, non necessariamente spendaccioni.
C’è almeno speranza che la crisi possa portare ad un futuro migliore, evitando con opportune politiche situazioni simili? Non ho molta fiducia nella memoria delle persone (la capacità di ricordare le molte lezioni della crisi e dubito che molti ne abbiano piena contezza) o nella capacità di questa memoria di superare le indicazioni in senso contrario, i condizionamenti e gli ostacoli per una rifondazione delle nostre società frapposti da chi è più uguale degli altri ed ha capacità di convincere con l’azione di lobby potenti. Qualcuno, per infondere speranza (ma forse anche per confondere) potrebbe risuscitare la distruzione creatrice di Schumpeter: la crisi fa piazza pulita dei più deboli e delle imprese meno efficienti, ponendo le premesse del rilancio e dello sviluppo. In verità, da Schumpeter in poi sia il mondo sia la scienza economica sono cambiati.
Anzitutto, la natura oligopolistica di molti settori e la dimensione elevata di tante imprese proteggono non necessariamente le aziende più efficienti, ma quelle dotate di maggior potere di mercato e con congrue disponibilità finanziarie. In aggiunta, la scienza economica ha compiuto dei progressi, introducendo tra l’altro il concetto di prodotto potenziale. Si pensi ai giovani che non lavorano, alle macchine che si arrugginiscono o diventano obsolete (perché in qualche parte del mondo il progresso continua) e agli effetti negativi sul prodotto potenziale che ne derivano.
Dunque la crisi è deleteria. Vale la pena perciò di approfondirne le radici e vedere se l’impostazione delle nostre istituzioni è adeguata per evitare ulteriori problemi. Le nostre (italiane, europee ed internazionali) sono state pensate nel dopoguerra anche sotto l’influsso keynesiano ma hanno subito rimaneggiamenti importanti dagli anni 70 agli anni 90 sotto l’influsso di pressioni di gruppi di potere e teorie che hanno mostrato i loro limiti non soltanto analitici, ma anche dal punto di vista delle esperienze pratiche derivanti dalla loro applicazione.
Brevemente a livello internazionale. La globalizzazione è un fenomeno impetuoso che è stato favorito dalle istituzioni internazionali anche oltre la misura e la natura che di essa si erano prefigurati i padri fondatori, con un esiziale via libero indiscriminato ai movimenti internazionali di capitale. Ma di questo non vorrei occuparmi oltre in questa sede, per lasciare un po’ più di spazio ai problemi europei. In Europa vi è necessità di ritornare all’ispirazione iniziale, che fu quella di evitare disgregazioni e lotte nel continente, ma la crisi ha mostrato che questa ispirazione si è probabilmente affievolita nel tempo. La crisi ha anche mostrato i limiti dell’impostazione liberistica che era già presente nella costruzione iniziale e che è stata rafforzata da Maastricht in poi. Ma voglio trattare in particolare soltanto un aspetto dei limiti della filosofia alla base della costruzione europea come si è venuta configurando negli ultimi decenni, ossia la sua tendenza (bias) deflazionistica. Si è voluta costruire un’unione monetaria senza uno stato federale. E si è affermato che l’originalità di questa costruzione era un vanto dell’Europa (si guardino i documenti presentati alle celebrazioni del decennale della creazione dell’euro di soli quattro anni fa). Dietro questa costruzione ci stava un interesse sicuro, quello della Germania e dei suoi stati satelliti, che volevano porsi al riparo dalle svalutazioni competitive dei paesi del Sud Europa, meno virtuosi, ma ugualmente pericolosi. C’era anche un presunto interesse, proprio in questi ultimi paesi, legato all’idea che il vincolo esterno avrebbe rimesso la casa in ordine, vincolando l’azione del sindacato, delle imprese e del governo.
Il tallone dell’euro ha funzionato in favore della Germania, consentendole di assorbire l’unificazione con i lander dell’Est e tranquille ristrutturazioni e innovazioni. Non ha prodotto quasi alcun effetto positivo (salvo che nell’immediato) in Italia e altrove, forse proprio per quell’errore di prospettiva legato all’idea di vincolo esterno. Ma, facendo crescere deficit e debito, ha esposto i singoli paesi ai colpi della speculazione, obbligando praticamente tutti (anche la Germania), oltre che la Bce, a premature politiche di uscita dalla crisi finanziaria ed economica innescata negli Usa. Di fronte all’ordine sparso con il quale si sono presentati i singoli paesi, la speculazione – quasi memore dell’insegnamento del duello fra Orazi e Curiazi – ha avuto e sta avendo buon gioco, aggravando i problemi dei paesi che man mano sono venuti a trovarsi in difficoltà.
Le politiche di crescita sono ora diventate un elemento imprescindibile, non soltanto per allentare i costi sociali della crisi, ma per evitare che essa si avviti ulteriormente. La politica dei due tempi deve ora almeno attuare il secondo passo, anche se il primo poteva essere evitato, proprio ponendo lo sviluppo e l’equità al primo posto dell’architettura istituzionale europea.
(Intervento alla tavola rotonda sul tema, per ricordare il 25° anniversario della scomparsa di F. Caffè).