A tutela del piccolo risparmio e per aumentare l’autonomia dello Stato verso la finanza internazionale, servono nuovi strumenti per il debito pubblico, i Bet
È comprensibile l’invito di Monti agli italiani ad acquistare titoli di stato per contenere la pressione della finanza internazionale sui nostri conti pubblici; è fondata la preoccupazione che, perdurando questa stretta e in assenza di adeguati interventi di contenimento che possono effettuarsi seriamente solo a livello dell’Unione europea, il costo del finanziamento del nostro debito pubblico rischia di fissarsi a livelli strutturalmente così elevati da restringere per lungo tempo le possibilità operative delle amministrazioni pubbliche. La conseguenza sarebbe un ulteriore peggioramento delle condizioni sociali degli strati sociali più deboli che, dopo aver pagato la crisi con l’aumento della pressione fiscale e i ridimensionamenti pensionistici, si troverebbero a doverla ulteriormente pagare in termini di riduzione strutturale dei servizi pubblici e di mancata protezione sociale.
Per quanto apprezzabili possano essere le intenzioni del governo Monti affinché l’Europa assuma appropriate iniziative per governare gli effetti perversi della speculazione internazionale, i contenuti non pienamente noti, l’incerto grado di fattibilità per gli attuali rapporti intergovernativi, i tempi comunque lunghi per le necessarie trasformazioni istituzionali aumentano le perplessità sull’adeguatezza di questo percorso per affrontare una situazione soggetta ai tempi precipitosi della finanza. Non sarebbe pertanto inopportuno per il nostro governo assumere iniziative sul terreno finanziario dirette a contenere la stretta che sta subendo il nostro debito pubblico. Non intendo riferirmi solo al ricorso a forme di sostegno esterne (quali l’appoggio della Bce e di altri organismi internazionali avviati e da avviare), ma a predisporre azioni proprie della finanza con le quali, invece di puntare emotivamente sulla sollecitazioni ad acquistare titoli pubblici con standard di mercato, ci si proponga di trasformare l’offerta degli stessi, proponendo forme contrattuali in grado di soddisfare le esigenze (di reddito, di rischio e di sicurezza) di un’ampia fascia di risparmiatori che il mercato non è in grado di adempiere.
Non sarebbe inopportuno che lo Stato italiano riprendesse quella sua “vecchia” pratica di favorire il “piccolo risparmio” dal quale storicamente ha attinto un ammontare rilevante di fondi e il cui grado stabilità, effetto di un’accumulazione per bisogni di lungo periodo, ha favorito la gestione del suo debito. È possibile ricondurre questi piccoli capitali verso i titoli pubblici offrendo loro un rendimento e una sicurezza maggiore dell’attuale senza che ciò si traduca in un aumento degli oneri finanziari dello stato con l’introduzione di un nuovo tipo titolo pubblico (un Buono eccezionale del Tesoro – Bet) il cui tasso d’interesse variabile corrisponda a una frazione del costo medio del debito pubblico (sui titoli, a breve, media e lunga scadenza, emessi sul mercato). La frazione (60-80% del costo medio?) potrebbe essere anch’essa variabile nel tempo a seconda del periodo di detenzione del titolo: a esempio, il 60% del costo medio se viene chiesto il rimborso dopo un anno, il 62% dopo due anni e così via fino all’80% se ritirato dopo oltre 10 anni. Il rendimento atteso sarebbe sensibilmente più elevato di quello sperimentato nell’ultimo decennio e, presumibilmente, maggiore di quanto possano realisticamente offrire oggi fondi dichiarati “veramente” sicuri.
Si tratta di una proposta che dovrebbe essere gradita a quei piccoli risparmiatori “ingenui” che desiderano investire i loro fondi – per i tempi lunghi dettati dalle finalità precauzionali proprie o dei propri congiunti – in maniera sicura e con un rendimento accettabile. È difficile fare una stima dell’ammontare dei fondi che potrebbero essere interessati. Ma se si considera che la ricchezza finanziaria liquida (moneta, depositi bancari e titoli) delle famiglie è ammontata secondo le stime della Banca d’Italia a 1.800 miliardi di euro nel 2010 e, tenendo conto che almeno il 10% del Pil è costituito da fondi per transazioni e che quasi il 60% dell’ammontare totale (secondo la Banca d’Italia) riguarda conti di piccolo importo (inferiore ai 50.000 euro), non è irragionevole pensare che l’ammontare potenziale dei fondi interessati nella conversione in Bet sia molto discosta dai 1.000 miliardi. Anche ammettendo una ridotta adesione al titolo da parte dei risparmiatori, i fondi risultanti sarebbero sufficienti per contenere le necessità di rifinanziamento dei prossimi mesi con l’effetto di allentare la morsa del mercato.
Non è un fatto socialmente trascurabile che, in questi anni di dominanza delle istituzioni finanziarie (internazionali, ma con l’apporto passivo di quelle nazionali), lo Stato ha rinunciato a interferire con i mercati smantellando tutte le iniziative che aveva storicamente costruito a sostegno del piccolo risparmio (la trasformazione delle Poste in un clone delle banche è un fatto esemplare). I piccoli risparmiatori sono stati costretti all’alternativa tra attività dal rendimento estremamente esiguo (non lontano dallo 0% per i depositi bancarie e forme analoghe) e, per superare la loro scarsa propensione alla sostituibilità tra moneta e titoli, attività (private) dai rendimenti attesi più elevati ma in seguito rivelatisi particolarmente rischiosi. Il piccolo risparmio (sebbene meritevole di protezione, se così va interpretata quella parte di Costituzione che lo prende in considerazione) è rimasto in balìa delle condizioni-capestro delle nostre banche che si sono mosse, con grande loro successivo svantaggio, a supporto della finanza internazionale. La situazione non sembra oggi diversa, anzi l’incertezza in cui incorrono i debiti pubblici europei indica, se ce n’è bisogno, un ulteriore scadimento delle opportunità di investimento sicuro per i “pochi e maledetti soldi” disponibili, a meno di non accontentarsi dell’1% e poco più offerto dai Bund tedeschi (il cui rendimento, in questa situazione, non è nemmeno detto sia così sicuro).
Il costo che lo Stato incontrerebbe con questo intervento a protezione del (piccolo) risparmio dalle intemperanze del mercato è presumibilmente minimo, se non addirittura negativo. In effetti, nel caso questi titoli non costituiscano una frazione insignificante del debito pubblico complessivo, essi comportano per definizione un costo che contrattualmente è inferiore al costo medio del debito stesso: con la loro sottoscrizione si riduce lo stesso costo medio di riferimento. Un effetto non secondario è il loro operare in funzione anticiclica: all’aumentare del livello dei tassi di mercato sui titoli pubblici, aumenta il costo medio del debito, lievita il rendimento dei Bet, la loro domanda (fuori “mercato”) ne è stimolata, si riduce l’offerta di “mercato” contenendo la pressione sulle quotazioni. Nel caso opposto in cui i tassi di mercato sono bassi e inferiori al costo medio, la domanda dei Bet è maggiore dato il loro maggiore rendimento e il maggior costo del debito pubblico esprime il vantaggio che ritraggono i piccoli risparmiatori. Non va trascurato però che, per merito di questi titoli, la più contenuta domanda sul mercato comprime il costo dei relativi titoli con effetti di contenimento del costo medio e quindi lo stesso costo dei Bet. In una valutazione dei costi e benefici il maggior costo del debito pubblico può ben essere compensato dalla maggiore sua stabilità e dall’effetto redistributivo di cui beneficiano i piccoli risparmiatori.
Non va infine trascurato il maggior grado di sicurezza nei confronti del futuro che un tale titolo fornirebbe ai piccoli risparmiatori rispetto a quanto è offerto dal mercato. In presenza di possibili tensioni future inflazionistiche (dovute o meno alla stabilità dell’euro), il fatto che attese in tale senso si trasferiscano sul livello dei tassi d’interesse nominali e quindi sul costo medio del debito pubblico, comporta che i sottoscrittori dei Bet siano (parzialmente) garantiti contro la perdita del valore del loro risparmio in misura indubbiamente maggiore di quella offerta dagli altri strumenti finanziari. In queste situazioni, risulta accentuata la loro funzione calmieratrice sul costo del debito pubblico.
È indubbio che l’implementazione di un tale schema di finanziamento richieda un approfondimento delle condizioni tecniche “al contorno” affinché esso operi in maniera efficace; non credo che manchino le competenze tecniche e le conoscenze sofisticate nel campo della finanza pubblica per individuare le forme contrattuali più adeguate. Un aspetto importante sembra essere la selezione dei sottoscrittori che dovrebbero privilegiare residenti italiani (per quanto compatibile con le norme europee) appartenenti alla fascia dei “piccoli risparmiatori”, anche se una restrizione in tale senso può non essere essenziale considerato che le stesse norme contrattuali del Bet, anche nella forma sommariamente descritto, risultano interessanti solo per chi ha esigenze cassettiste e vuole evitare rischi che non è in grado né di valutare né di contrastare. Ma, al di là del pur meritorio sostegno al piccolo risparmio, un esito positivo di questa forma di indebitamento non solo aumenterebbe lo spazio di autonomia dello Stato nei confronti della finanza internazionale e interna, ma costituirebbe anche un importante insegnamento sulla possibilità del soggetto pubblico di disegnare specifici progetti di protezione della propria società nei confronti di indesiderati effetti di mercato.