Il neo-mercantilismo di Trump segna la fine della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni. È il sintomo più profondo del declino della potenza americana in campo economico
La politica protezionista annunciata il 31 marzo da Donald Trump fa seguito a una lunga serie di misure puntuali di ritorsione commerciale, e non è immediatamente operativa: è tuttavia un messaggio politico molto chiaro e molto grave, e rappresenta una svolta sostanziale. Annuncia la fine di un’epoca, quella degli Stati Uniti motore del liberoscambio, iniziata ai tempi di Franklin Delano Roosevelt e sviluppatasi durante la seconda guerra mondiale e nel dopoguerra, fino al nuovo secolo. In tutti questi decenni, l’opzione a favore della liberalizzazione del commercio internazionale ha accompagnato costantemente l’ascesa degli Stati Uniti come superpotenza mondiale, economica e politica. Il cambiamento di rotta è tale da non poter essere in alcun modo sottovalutato.
Il Segretario al Commercio Wilbur Ross ha fatto la sua parte nel drammatizzare la situazione, parlando esplicitamente di una “guerra commerciale” in atto. I due “ordini esecutivi” di Trump riguardano un’indagine sui deficit commerciali, paese per paese, demandata al Department of Commerce, a cui dovranno far seguito raccomandazioni operative; e l’applicazione più rigorosa delle leggi anti-dumping, cioè delle misure contro le esportazioni accusate di essere “sleali”, in particolare in quanto applicano prezzi più bassi di quelli interni. Si tratta di accuse difficili da dimostrare, che sono state spesso alla base di complicati contenziosi internazionali: di fatto, l’anti-dumping finisce per essere un classico pretesto per il protezionismo puro e semplice.
Nel linguaggio del nuovo presidente, il consistente deficit corrente della bilancia dei pagamenti americana (pari nel 2016 a quasi 500 miliardi di dollari, il 2,6 per cento del PIL, nonostante il saldo attivo nei servizi) è frutto di “abusi commerciali” e di “violazioni delle regole”. La sua mentalità neo-mercantilista non può ammettere che i deficit abbiano altre cause, fra le quali semplicemente la perdita di competitività di alcune merci americane, in termini di costi o di qualità. Né che il deficit sia collegato al processo di deindustrializzazione o all’espansione delle multinazionali americane in tutto il mondo, Cina compresa. Il secondo decreto del 31 marzo offre il quadro giuridico per attuare misure protezioniste concrete e mirate, che seguiranno. Colpiranno soprattutto i paesi con i maggiori attivi commerciali bilaterali nei confronti degli USA: in primo luogo la Cina, grande potenza economica (e politica) emergente che minaccia la leadership americana; ma anche paesi alleati come la Germania, il Giappone, la Corea del Sud e il Messico. E’ difficile immaginare tutte le conseguenze politiche, certamente destabilizzanti, delle possibili “guerre commerciali” con questi paesi.
All’origine della situazione attuale c’è la crisi del multilateralismo, aggravatasi dal 2003 con l’impasse dei negoziati WTO, a cui ha fatto seguito l’espansione generalizzata di accordi regionali e bilaterali. Tra gli ultimi, i contestatissimi TTIP (tra USA e Europa) e TPP nella regione Asia-Pacifico, entrambi abbandonati.
Come si spiega questa crisi, dopo decenni di accordi di liberoscambio? L’oggetto delle trattative si è con il tempo esteso dai semplici movimenti delle merci attraverso le frontiere a qualcosa di molto più complesso e difficile da gestire: le “barriere non tariffarie”. In questa categoria rientrano tutte le misure di politica industriale, agricola, sanitaria, culturale, che potenzialmente favoriscono un produttore nazionale rispetto a un produttore estero. Ad esempio, le politiche europee di sostegno all’agricoltura (la PAC) sono considerate penalizzanti per le esportazioni agricole verso l’Europa, e oggetto di estenuanti trattative in sede WTO. Ancora: il nostro rifiuto di importare carne agli ormoni (per motivi sanitari) è considerato dagli Stati Uniti una “barriera non tariffaria”, una misura sleale, tale da giustificare misure di ritorsione (ad esempio un dazio contro gli scooter o i formaggi). Un finanziamento pubblico al cinema europeo verrà contestato dagli americani, perché discrimina Hollywood, che non lo riceve. Al limite, qualunque politica industriale, territoriale, sanitaria o culturale può entrare nel mirino. Questa situazione ha messo in luce i paradossi e le contraddizioni profonde dell’idea stessa di liberoscambio, così come intesa nell’ideologia dominante, e ha condotto all’impasse negoziale.
Prima di Trump, tuttavia, si era cercato nel regionalismo un quadro accettabile di regolazione dell’economia internazionale, nella convinzione condivisa che la libertà di commercio (se regolata) fosse una fonte di crescita per tutti, una sorta di “bene pubblico” da tutelare. Con Trump, si torna brutalmente al bilateralismo (in cui gli Stati Uniti possono far valere tutto il loro peso negoziale), se non al protezionismo unilaterale puro e semplice.
L’aspetto squilibrante di questa situazione è evidente se ricordiamo che il commercio internazionale è per definizione un gioco a somma zero. Le bilance dei pagamenti correnti non possono essere tutte in attivo, al surplus di alcuni paesi corrisponderà necessariamente il deficit di altri. Per decenni, la superpotenza americana aveva svolto il ruolo di compratore di ultima istanza, strutturalmente in deficit. In altri termini, gli americani potevano stabilmente vivere “al di sopra dei propri mezzi”, indebitandosi. Gli Stati Uniti potevano permetterselo, in quanto “debitore armato”: superpotenza politica e militare la cui valuta, il dollaro, viene accettata internazionalmente. Se ora questo ruolo viene meno, verrà meno anche l’equilibro degli scambi internazionali. Gli scenari apertamente neo-mercantilisti sono scenari di squilibrio crescente e di conflitto.
Può avere successo la strategia di Trump? Assolutamente no, per almeno due motivi.
Le inevitabili ritorsioni da parte dei paesi partner, che a loro volta colpiranno le esportazioni americane.
Le catene globali e regionali del valore, le reti complesse di fornitura che caratterizzano l’economia contemporanea, integrandone profondamente le strutture produttive.
Le reti di fornitura sono oggi così estese e complesse, le imprese multinazionali così ramificate, le produzioni così frammentate, che le sciabolate di Trump faranno danni in primo luogo alle imprese americane stesse. Chiudere la frontiera messicana vuol dire chiudere le fabbriche a Detroit, per mancanza di componenti essenziali. L’Amministrazione americana pare ignorare, o finge di ignorare, questa caratteristica fondamentale. Le esportazioni cinesi sono dovute anche, in misura consistente, alla produzione in Cina di multinazionali americane. Senza la produzione delle joint venture in Cina, con imprese pubbliche cinesi come partner, i costruttori americani di auto non sarebbero forse sopravvissuti alla crisi.
Il passaggio dagli slogan populisti (fonte di facile consenso) all’azione concreta di governo rischia di essere molto doloroso per l’economia e per la società americana, come lo sarà la Brexit per l’economia e per la società inglese.
Il neo-mercantilismo di Trump segna la fine della globalizzazione? Come l’abbiamo conosciuta negli ultimi anni e decenni, molto probabilmente. E’ forse il sintomo più profondo del declino della potenza americana in campo economico.
Qualcuno se ne rallegra. L’alternativa a questa globalizzazione, tuttavia, potrebbe essere uno scenario ben peggiore di conflitto e instabilità. Storicamente, la guerra commerciale è parente stretta della guerra tout court, e gli Stati Uniti conservano la supremazia militare e sono tentati di farla pesare maggiormente mentre quella economica declina. E’ vero che la storia non si ripete mai allo steso modo, ma l’atmosfera che aleggia in questi giorni ricorda minacciosamente quella degli anni Trenta del Novecento.
L’implosione del Washington Consensus, il ritorno del bilateralismo e del protezionismo nel commercio internazionale, lo slittamento dall’ideologia neo liberista all’ideologia neo mercantilista che si delinea sotto i nostri occhi impongono un profondo ripensamento alla sinistra: se vuole proporre un progetto diverso e alternativo rispetto al populismo di destra e al ripiegamento nazionalista, che stanno dilagando sulle due sponde dell’Atlantico.