Gli equivoci sulla spesa corrente “cattiva” e quella per investimenti “buona”. Senza un’analisi della politica produttiva pubblica, ogni “spending review” è destinata a fare pura macelleria. O all’inefficacia
L’impostazione data dal governo Monti alla spending review è ben lontana da affrontare in modo non solo sistematico ma neanche minimamente razionalizzante il problema della spesa pubblica.
Dobbiamo partire da due constatazioni di base: 1. Ai politici piace molto tagliare nastri. 2. Per molti economisti (quelli che contano) la spesa pubblica è “il male” ma, se proprio si deve fare, quella in investimenti è da privilegiare rispetto alla spesa corrente.
La combinazione di questi due fenomeni, come vedremo, si concretizza in sprechi, facilmente documentabili dalla stampa e dalla tv, e porta a scelte politiche e di politica economica di tagli di spesa pubblica che, invece di eliminare questo tipo di sprechi, li alimenta.
Il problema è abbastanza semplice: ogni investimento, per poter funzionare in efficienza, ha bisogno di una certa quota di spesa corrente che si deve ripetere per tutto il periodo di funzionamento dell’investimento (molto spesso di lunghissima durata o indefinito). Questa relazione fra ammontare dell’investimento e spesa corrente è di tipo tecnico-produttivo e, data la struttura tecnologica dell’investimento, dovrebbe essere facilmente calcolabile, o comunque dovrebbe essere calcolabile l’intervallo del rapporto per il quale l’efficienza dell’investimento sia a un livello economicamente e socialmente accettabile.
Nessun imprenditore e anche poche famiglie farebbero un investimento reale senza premunirsi di somme in grado di far funzionare l’investimento stesso a un livello profittevole o comunque accettabile. La pubblica amministrazione non effettua questi calcoli anzi subisce pressioni politiche e di politica economica per ridurre la spesa corrente indipendentemente dall’ammontare dello stock di capitale esistente e dalle sue variazioni.
Questo ha portato a una “sovracapitalizzazione” della struttura pubblica italiana. Per semplicità possiamo eliminare dal problema la sovracapitalizzazione culturale e storica (enorme in Italia); infatti in questo caso si può ricorrere alla conservazione ma anch’essa richiederebbe una notevole quota di spesa in conto corrente. Nei fatti però la quantità di capitale culturale e storico in Italia è talmente elevata che la sua parziale usura e anche distruzione sono ormai socialmente e politicamente accettate. Mi riferisco quindi esclusivamente alla capitalizzazione produttiva di servizi o di reddito.
La produzione pubblica di servizi e reddito andrebbe analizzata e valutata, dato lo stock di capitale esistente e la sua variazione, individuando il grado di efficienza nella loro capacità di fornire servizi e/o produrre reddito. Tale valutazione non può non tener conto della quantità e qualità della spesa corrente necessaria affinché tale efficienza sia a un livello accettabile. Sono calcoli abbastanza semplici e ogni amministrazione dovrebbe essere in grado di farli e quindi individuare il livello di spesa in conto corrente necessaria a questi scopi.
Da ciò deriva che la spesa in conto corrente non è una variabile aggiustabile a piacere, ma ogni sua variazione, in alto o in basso, ha conseguenze immediate sull’efficienza dell’utilizzo dello stock di capitale sia nel senso di sovracapitalizzazione, sia in quello di sottocapitalizzazione.
Non tener conto di questi calcoli è a mio avviso la causa maggiore dell’esistenza di sprechi e inefficienza della cosa pubblica in Italia. Una politica seria di spending review dovrebbe avere alla base questa analisi di politica produttiva pubblica che implicherebbe, a seconda dei casi, o una riduzione/distruzione di capitale o una riduzione della spesa corrente.
In Italia siamo pieni di esempi di entrambi i casi di sprechi, intesi nel senso di inefficienza del processo produttivo: si va dagli ospedali vuoti per mancanza di personale, alle scuole senza aule e senza computer, dagli uffici pubblici pieni di impiegati che spesso si contendono le poche pratiche, a situazioni di terribile mancanza di personale anche in settori chiave per l’economia del paese.
Un esempio da manuale si può trovare in molti paesi del terzo mondo, nei quali la quota di aiuti sul PIL è elevata, e nei quali sono chiaramente visibili i guai portati dalla incapacità o non volontà di tener conto di questo problema. La stragrande maggioranza degli aiuti vengono fatti in conto capitale (nessun donatore si carica di un impegno a durata indefinita) e spesso in settori strategici, ma senza che si tenga conto dell’esistenza di meccanismi che garantiscano il flusso di spesa corrente in grado di far funzionare o spesso solo mantenere l’investimento. Non è un caso che la struttura della spesa pubblica in questi paesi veda percentuali superiori al 20% di spese in conto capitale, con incentivo, consenso e “gioia” degli economisti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, spese che invece provocano sprechi, inefficienze, dissesti e spesso drammi nella struttura economica di questi paesi.
Tornando all’Italia, ovviamente l’impostazione data dal governo Monti alla spending review è ben lontana da affrontare in modo non solo sistematico ma neanche minimamente razionalizzante il problema della spesa pubblica, ma ha uno scopo apertamente limitato a tagli generalizzati senza preoccuparsi minimamente degli effetti da “macelleria sociale” che comporteranno.
Certamente una politica alternativa non è facile e soprattutto potrebbe dare i suoi effetti positivi in un periodo non breve, ma uno sforzo intellettuale e politico in questo senso poteva esserci. Ma perché ciò sia possibile ci sarebbe bisogno di una classe dirigente con un orizzonte temporale almeno superiore a quello attuale di pochi mesi e congiuntamente ci sarebbe bisogno di economisti che non considerino tutto ciò che è pubblico uno spreco di per sé, ma che analizzino la spesa pubblica come strumento indispensabile per la produzione di beni e servizi necessari per il benessere sociale e per uno sviluppo economico equo e sostenibile.