La grande crisi del 2008 non è solo finanziaria. Tra le sue cause reali, l’aumento della diseguaglianza e la riduzione delle protezioni sociali. Ecco perché il rilancio dello Stato sociale è l’unico pacchetto anticrisi che possa funzionare davvero. Anticipazioni dal Rapporto sullo Stato sociale 2010
Le società capitalistiche più sviluppate stanno attraversando uno sconvolgimento economico il cui decorso completo è ancora incerto, ma le dimensioni assunte nel primo anno dal suo inizio sono state analoghe o superiori a quelle che nello stesso periodo caratterizzarono la Grande crisi del ’29.
Dopo i primi sintomi – emersi nell’estate 2007 a causa dei mutui subprime , che pure erano da tempo presenti nel mercato -, la crisi in atto è esplosa a livello globale nell’estate 2008; essa , tuttavia, affonda le sue radici in fattori di instabilità operanti da decenni, che si erano già espressi in numerose crisi, anche se territorialmente circoscritte.
Quella che si può identificare come “La grande crisi del 2008” si è manifestata inizialmente nelle Borse e nel sistema bancario a livello internazionale; ciò ha contribuito ad un’interpretazione diffusa che la sua natura sia essenzialmente finanziaria, per lo più causata dal protrarsi della politica dei bassi tassi d’interesse della Federal Reserve americana e dall’allentamento delle regolamentazioni in quel settore; i successivi effetti reali sarebbero solo una conseguenza più o meno inevitabile della forte instabilità dei mercati finanziari e dell’ingente contrazione del credito bancario. Invece, la crisi riflette anche contraddizioni di natura reale delle relazioni economiche, sociali e politiche ed è essenzialmente in tale ambito che vanno individuate le sue cause strutturali, i suoi effetti più preoccupanti e le sue possibili vie di uscita. Anche i fenomeni delle cosiddette “bolle” (come quelle della new economy e del settore immobiliare) e il più generale processo di finanziarizzazione dell’economia (l’enorme espansione del valore delle attività finanziarie favorito, in particolare, dalla diffusione di nuovi strumenti “derivati” caratterizzati da elevata leva finanziaria e scarsa regolamentazione), che hanno contribuito significativamente all’innesco della crisi, trovano motivi di spiegazione in difficoltà dell’economia reale .
Tra gli aspetti strutturali dell’economia e della società capitalistica richiamati prepotentemente all’attenzione dalla crisi se ne segnalano particolarmente due: in primo luogo l’incertezza e il suo ruolo contraddittorio nelle economie di mercato monetarie; in secondo luogo, le profonde interconnessioni della distribuzione del reddito con, da un lato, i rapporti di forza socio-politici e, d’altro lato, gli equilibri potenziali tra domanda e offerta e i livelli qualitativi e quantitativi della crescita. Entrambe le questioni chiamano in causa, tra l’altro, il ruolo della politica economica e, in particolare, dello stato sociale che era stato sottostimato dalle teorie prevalenti negli ultimi decenni.
(seguono due paragrafi, dedicati al “keynesismo e l’età dell’oro”, e alla “crisi degli anni ’70 e affermazione del neoliberismo”)
La fragilità del nuovo modello di crescita e la crisi attuale
(…) Nella primavera del 2009, dopo oltre sei mesi di massicci e generalizzati interventi delle autorità pubbliche a sostegno in primo luogo dei mercati finanziari, ma anche dei settori reali dell’economia, la precipitazione delle quotazioni delle Borse mondiali si è arrestata, lasciando spazio ad un successivo parziale recupero accompagnato però da un’elevatissima volatilità. Ad oltre un anno dal fallimento della Lehman Brothers e dopo il fallimento record di circa cento banche solo negli USA avvenuto nei primi nove mesi del 2009, i rischi sistemici del settore bancario non sono più tra i primi punti all’ordine del giorno del dibattito economico; tuttavia una sua nuova regolamentazione a livello internazionale, pur considerata indispensabile dalla generalità dei commentatori, appare difficile, mentre l’attività di credito alle imprese rimane fortemente ridotta. Ancora più indeterminati rimangono i progetti della più complessiva riorganizzazione del sistema monetario e finanziario globale che pure avevano attirato l’attenzione generale già nei primi mesi della crisi. Ma la dimensione del crollo che continua ad essere non adeguatamente considerata è quella dell’economia reale, dove pure si manifestano gli effetti più dolorosi e preoccupanti della crisi. Nella generalità delle maggiori economie occidentali, la caduta del PIL ha assunto dimensioni mai raggiunte dall’ultimo dopoguerra, mentre la disoccupazione è proiettata oltre il 10%. Una questione che è centrale non solo nella spiegazione della crisi, ma anche per come fuoriuscirne è la distribuzione del reddito.
La crisi, evidenziando la fragilità del modello basato sulla domanda finanziata dal credito facile e dalle “bolle”, pone la necessità di rifondare i meccanismi della crescita non solo sul miglioramento della capacità e delle condizioni dell’offerta, ma anche su una domanda adeguata che sia sostenuta da fonti di finanziamento più solide; cioè che sia alimentata da una distribuzione del reddito meno sperequata, da prospettive salariali più dinamiche e certe, da politiche sociali che diano implementazione e sicurezza al reddito complessivo e alle condizioni di vita lungo l’intero arco dell’esistenza individuale
La virulenza della crisi e la grave defaillance dei mercati ha convinto anche i loro più strenui sostenitori ad auspicare l’intervento pubblico a tutto campo; ma come fatto emergenziale, ritenendo la crisi un incidente di percorso e limitata essenzialmente agli aspetti finanziari di un meccanismo momentaneamente sfuggito di mano. Invece, se si considerano le connessioni niente affatto casuali tra la finanziarizzazione dell’economia e alcune contraddizioni reali del meccanismo d’accumulazione collegate ai cambiamenti intervenuti nella distribuzione del reddito e nelle politiche economiche, la riconsiderazione di questi aspetti diventa un momento ineludibile per uscire dalla crisi in modo non puramente episodico.
La crisi e il ruolo del welfare state
La natura e le cause della crisi suscitano la specifica necessità di riconsiderare il ruolo delle politiche sociali e delle istituzioni del welfare state.
Storicamente, la loro espansione si era verificata con continuità dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni ’80 del secolo successivo, stimolata dall’esigenza di compensare gli squilibri economici e sociali dello sviluppo capitalistico e, in particolare, gli effetti delle sue crisi ricorrenti. D’altra parte, lo sviluppo del welfare state ha trovato fondamento anche in motivazioni d’efficienza economica ovvero nella sua potenziale capacità – riconosciuta anche dalle teorie liberali più avanzate – di perseguire con costi inferiori una pluralità di obiettivi che il mercato ha difficoltà o è addirittura nell’impossibilità di raggiungere.
Il tendenziale accrescimento dello stato sociale rappresenta una forma di superamento progressivo della logica capitalistica fondata sul profitto e sulle scelte individuali.
Tuttavia, a partire dagli anni ’80, la radicale svolta ideologica impressa dall’affermazione del neoliberismo anche nel settore sociale ha oscurato i precedenti risultati analitici ed empirici raggiunti nel dibattito stato-mercato; cosicché, oltre alle cattive applicazioni e ad alcune patologie dell’intervento pubblico che certamente vanno considerate, sono state messe in discussione anche le sue consolidate capacità di poter efficacemente sostituire, compensare, integrare e valorizzare l’azione del mercato.
Nelle specifiche esperienze nazionali, la spinta a contenere la spesa sociale è stata superiore quando hanno pesato maggiormente politiche economiche e imprenditoriali miopi, rivolte più a migliorare la competitività di prezzo mediante la riduzione degli oneri salariali che non ad aumentare la competitività qualitativa con la diffusione del capitale umano e delle reti di sicurezza che favoriscono l’innovazione. Il prevalere di queste politiche di corto respiro – che, in particolare, non sono estranee al cosiddetto declino relativo dell’economia italiana – induce a valutare la spesa sociale come un costo che pregiudica la crescita anziché come lo strumento che, invece, può favorirla. Ma in tal modo si alimenta il circolo perverso della corsa al ribasso delle condizioni economiche e sociali. Più che salvaguardarsi dalla inarrivabile concorrenzialità di costo che i paesi emergenti possono esercitare nei settori produttivi tradizionali arrivati alla portata delle loro conoscenze tecnologiche, i paesi più avanzati rischiano di ostacolare l’innovazione dei loro sistemi produttivi e, quindi, di retrocedere dalla fascia alta della divisione internazionale del lavoro.
L’analisi della “grande crisi del 2008” e dei meccanismi che hanno accompagnato la sua maturazione fornisce dunque indicazioni sulle possibilità di uscirne che spingono ad una rivalutazione del ruolo delle politiche sociali. La rinnovata consapevolezza dell’incertezza come una delle contraddizioni di fondo del mercato e gli squilibri economici e sociali determinati negli ultimi decenni dal peggioramento distributivo e dall’accresciuta insicurezza dei redditi da lavoro confermano la necessità di politiche e istituzioni capaci di compensare quegli elementi d’instabilità. Il recupero e l’adeguamento dello stato sociale vanno considerati come un contributo significativo a questo obbiettivo e, più in generale, alla ripresa e all’aggiornamento del percorso di conciliazione e di positiva interazione tra mercato, istituzioni e democrazia interrotto alla fine dei passati anni ’70.
Il Rapporto sullo Stato Sociale 2010, intitolato “La Grande crisi del 2008 e il welfare state”, viene presentato a Roma l’11 novembre 2009. E’ curato da Felice Roberto Pizzuti, vi hanno lavorato: Gianluca Busilacchi, Vincenzo Carrieri, Francesca Corezzi, Giuseppe Croce, Fernando Di Nicola, Stefania Gabriele, Elena Granaglia, Veronica Grembi, Federico Lucidi, Angelo Marano, Bianca Martelli, Mario Nuti, Elena Pisano, Felice Roberto Pizzuti, Michele Raitano, Andrea Ricci, Marianna Riggi, Elisabetta Segre, Massimiliano Tancioni, Simone Tedeschi, Raffaele Tangorra, Francesco Vona. Editore: Academia Universa Press.
Il testo qui pubblicato è uno stralcio delle “Considerazioni di sintesi” che introducono il Rapporto.