Una domanda di uscita unilaterale della Grecia dall’Ue avrebbe effetto solo due anni dopo, lasciando ampio tempo per eventuali rinegoziazioni. Ma potrebbe essere un modo efficace e rapido di far venire a più miti consigli Schäuble e gli altri falchi della troika che hanno traumatizzato il paese spingendola verso il default a tutti i costi
Nei panni di Alexis Tsipras farei domanda immediatamente perchè la Grecia lasciasse unilateralmente l’Unione europea, come previsto dall’art. 50 del TUE (versione consolidata del Trattato sull’Unione europea, Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, C 115/15, 9/5/2008).
Dall’inizio della crisi della Grecia nel 2010 la Troika (scusatemi, ora si deve dire “le istituzioni internazionali”) hanno impegnato nel suo salvataggio circa 245 miliardi di euro, ossia più di quanto sarebbe stato sufficiente a quell’epoca a estinguere l’intero debito greco. Tutti sanno che questi fondi non hanno beneficiato i greci ma sono andati quasi interamente a salvare le banche francesi, svizzere e tedesche dalla loro massiccia esposizione ai titoli di stato greci. E nel Financial Times del 21 aprile Martin Wolf demistifica la “mitologia” greca, tra cui il mito che “la Grecia non ha fatto nulla”:
“La Grecia ha subìto un enorme aggiustamento dei saldi del suo bilancio pubblico e dei suoi conti con l’estero. Tra il 2009 e il 2014, il saldo primario di bilancio (al lordo degli interessi) si è ridotto del 12 per cento del PIL, il disavanzo di bilancio strutturale del 20 per cento del PIL e il saldo delle partite correnti del 12 per cento del PIL.”
“Tra il primo trimestre del 2008 e l’ultimo del 2013, la spesa reale per l’economia greca è diminuita del 35 per cento e il PIL del 27 per cento, mentre la disoccupazione ha raggiunto il 28 per cento della forza lavoro. Questi sono aggiustamenti enormi. In effetti, una delle tragedie dell’impasse sulle condizioni per gli aiuti è che l’aggiustamento è già avvenuto. La Grecia non ha bisogno di risorse aggiuntive.”
Il costo di tali aggiustamenti per i greci sono stati immensi. Il tasso medio di disoccupazione al 28% ha raggiunto il 48% per la disoccupazione giovanile. Lo smantellamento della contrattazione collettiva ha abbassato i salari reali orari del 25% nel 2014; il salario minimo è sceso al livello degli anni 1970. La pensione minima è scesa al di sotto della soglia di povertà. Ben il 35,7% della popolazione e il 44,1% dei bambini di età compresa da 11 a 15 anni sono ora a rischio di povertà o di esclusione sociale. È peggiorata la sanità e sono aumentati significativamente i suicidi. E Gechert e Rannenberg (della Fondazione tedesca Hans Böckler) dimostrano che senza l’austerità l’economia greca avrebbe sofferto solo un periodo di ristagno, evitando la profonda recessione, mentre l’aumento delle imposte senza tagli alla spesa pubblica sarebbe stato molto più efficace nel ridurre il rapporto debito/PIL.
Un altro mito sfatato da Martin Wolf è che la Grecia pagherà il suo debito per intero. In seguito al consolidamento fiscale e al peso degli interventi di salvataggio il debito pubblico greco è passato da circa il 120% del PIL nel 2010 a oltre il 177% di oggi. Così la Grecia ha bisogno o di un’ulteriore riduzione del debito o, al fine di continuare il servizio del debito, ha bisogno dei 7,2 miliardi di euro di assistenza che avrebbe dovuto ricevere già l’anno scorso ma che non sono stati erogati a causa di presunti ritardi o inadempimenti nella realizzazione di “riforme strutturali” (licenziamenti, privatizzazioni, tagli pensionistici e di welfare) che erano state accettate nel Memorandum d’intesa negoziato dal precedente governo di destra con le “istituzioni internazionali”.
Dopo le elezioni del 25 gennaio il nuovo governo, eletto democraticamente su una specifica campagna elettorale anti-austerità, e che oggi secondo i sondaggi comanda con il sostegno dell’80% della popolazione, il 20 febbraio ha raggiunto un accordo di principio con le “istituzioni” per l’esborso dei € 7,2 miliardi residui, a condizione di riforme strutturali un po’ diverse, ma ancora non specificate. Tuttavia ci sono state continue dispute sul fatto se le proposte greche di riforma fossero o meno sufficienti a giustificare l’esborso dei fondi residui.
Fino ad oggi la Grecia ha pagato puntualmente alla scadenza interessi e ammortamento del debito, ad esempio $ 450mn dovuti al FMI il 9 aprile e una serie di buoni del tesoro giunti alla scadenza a meta’ aprile. Ma il 1 maggio è scaduta una rata di 203 milioni di euro e il 12 maggio ne scade un’altra di 770 milioni, oltre a 1,6 miliardi di euro nel mese di giugno, tutti dovuti al FMI, mentre anche una parte del debito con la BCE scade in maggio e giugno. Il governo greco ha raschiato il fondo del barile procedendo alla requisizione delle disponibilità liquide delle imprese statali e delle autorità locali. E ha già annunciato che non è in grado di effettuare questi pagamenti, a meno che non sospenda il pagamento delle pensioni e dei salari e del settore pubblico alla fine di aprile. Senza l’accesso a questi € 7,2 miliardi la Grecia rischia il default sui suoi pagamenti dovuti al FMI e alla BCE.
Il 15 aprile il FT ha riferito che dei funzionari greci avevano proposto informalmente al FMI di rinviare il rimborso dei prestiti dovuti a maggio, ma gli è stato detto che una rinegoziazione non era possibile; addirittura sono stati persuasi a non fare quella richiesta ufficialmente, presumibilmente per evitare un aperto rifiuto.
Il Financial Times on line del 18 aprile riferisce che il presidente della Bce Mario Draghi ha dichiarato alla riunione di primavera del FMI che l’Eurozona era oggi meglio attrezzata di quanto non fosse in passato (nel 2010, 2011 e 2012) per affrontare una nuova crisi greca, ma ha avvertito che, se la situazione dovesse deteriorarsi gravemente, si navigherebbe in “acque inesplorate”.
Il 21 aprile BloombergBusiness riferiva che “La Banca centrale europea sta studiando misure per la limitazione della Assistenza di Liquidità di Emergenza alle banche greche, data la crescente resistenza in seno al Consiglio direttivo ad aiutare ulteriormente i paesi debitori in difficoltà”. Un infausto presagio.
I costi di una uscita greca dall’Eiro (Grexit) sarebbero molto gravi non solo per la Grecia ma per tutta la Eurozona ed oltre i suoi confini, ma il ritiro unilaterale da tutta l’Unione europea piuttosto che semplicemente dalla zona euro avrebbe più senso. Una domanda di uscita unilaterale dall’Unione avrebbe effetto solo due anni dopo, lasciando ampio tempo per un possibile ritiro di tale domanda e per eventuali rinegoziazioni, ma potrebbe essere un modo efficace e rapido di far venire a piu’ miti consigli Schäuble e gli altri falchi della troika che hanno traumatizzato la Grecia spingendola verso il default a tutti i costi. A questo punto la Grecia dovrebbe e potrebbe riprendere l’iniziativa, fra l’altro anche per evitare una crisi di governo interna.
Particolarmente deplorevole è la doppiezza e malafede del FMI, che in Grecia e altrove su scala globale ha imposto incessantemente il consolidamento fiscale e le riforme strutturali (un eufemismo per la libertà delle imprese di licenziare i dipendenti e per la sistematica distruzione dello stato sociale), ma allo stesso tempo hanno svolto un ruolo di primo piano nello screditare sia il consolidamento fiscale sia le “riforme” come strumenti di politica economica per combattere una recessione.
Il World Economic Outlook del FMI dell’ottobre 2012 (Box 3.1 insolitamente firmata dal suo Chief Economist Olivier J. Blanchard e dal Senior Economist David Leigh, presumibilmente per suggerire che le loro opinioni sono personali e non ufficiali) ha riveduto al rialzo le precedenti stime dei moltiplicatori fiscali prevalenti nei quaranta anni precedenti, per diverse ragioni. In primo luogo, l’inefficacia di una espansione monetaria che possa compensare il consolidamento in prossimità di un tasso di interesse vicino allo zero; in secondo luogo, la mancanza di opportunità di svalutazione del tasso di cambio soprattutto nell’Eurozona; in terzo luogo, l’esistenza di un ampio divario tra il reddito potenziale e quello reale (dato che i moltiplicatori fiscali sono più elevati in una recessione che in un boom) e, infine, il ricorso simultaneo al consolidamento in molti paesi. Tale revisione dei moltiplicatori previsti implicava una revisione al rialzo dei costi del consolidamento fiscale, fino al punto di teorizzare che gli aumenti di imposte e tagli di spesa in realtà avrebbero fatto aumentare, anziche’ diminuire, il rapporto tra debito e PIL, stabilendo così un circolo vizioso. Questo, naturalmente, è quello che è successo puntualmente in Grecia e in altre economie fortemente indebitate – come l’Italia – a seguito di successivi consolidamenti fiscali severi.
Inoltre il World Economic Outlook IMF 2015 (Cap. 3, Box 3.5 su gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività totale dei fattori, pp. 104-107) pubblicato il 14 aprile scorso riconosce candidamente, sulla base dell’ampia evidenza econometrica disponibile, che la produttività totale dei fattori FMI può essere aumentata utilizzando manodopera più qualificata e tecnologie informatiche e di comunicazione (ICT), investendo di più in ricerca e sviluppo e abbassando il grado di regolamentazione nei mercati dei prodotti (soprattutto dei servizi). Al contrario, il FMI non trova alcun effetto statisticamente significativo di una liberalizzazione del mercato del lavoro sulla produttività totale dei fattori (vedi anche Ronald Janssen su Europa sociale).
Tale doppiezza schizofrenica da parte del FMI non ha nemmeno l’ignoranza come concepile giustificazione. Un ritiro unilaterale greco dall’Unione Europea farebbe rinsavire molta gente anche a Washington e non solo a Bruxelles, Francoforte e Berlino. Forza Alexis e Yanis, fatelo anche a nome di tutti noi e non solo per conto della Grecia.