Democrazia svendesi/ Il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu ha votato una risoluzione storica per l’avvio di un processo verso uno strumento legalmente vincolante per il rispetto dei diritti umani da parte delle grandi corporations
Lo scorso 26 giugno il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu ha votato una risoluzione storica per l’avvio di un processo che porti a uno strumento legalmente vincolante per il rispetto dei diritti umani da parte delle imprese multinazionali. La risoluzione è passata con 20 voti a favore, 13 astensioni e 14 contrari. Tra questi ultimi, l’Italia, intervenuta per conto dell’Unione Europea, assieme a Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti e altri Paesi del Nord del mondo.
Il voto contrario viene spiegato sostanzialmente con tre argomenti: primo, in ambito Onu esistono già delle linee guida su imprese e diritti umani, promosse nel 2011, e i due processi rischiano di sovrapporsi; secondo, spetta ai singoli Stati promuovere e fare rispettare le leggi; in ultimo tale provvedimento si applicherebbe alle imprese multinazionali, mentre possono anche essere imprese locali a violare i diritti umani.
Vediamo tali argomenti più da vicino. Sul primo, le linee guida approvate negli scorsi anni sono effettivamente un primo passo per riconoscere una responsabilità anche delle imprese nella tutela e rispetto dei diritti umani, ma non hanno alcuna forza coercitiva. Al momento si possono equiparare a un’iniziativa di responsabilità sociale di impresa: dei principi del tutto condivisibili ma non vincolanti, in assenza di un potere di implementazione e sanzione in caso di violazioni. È paradossale come le iniziative di responsabilità sociale, che per definizione dovrebbero andare oltre le leggi esistenti, vengano oggi all’esatto opposto sfruttate per cercare di indebolire e non adottare normative necessarie quanto urgenti. Secondo, sul fatto che la prima responsabilità in materia di diritti umani spetti ai singoli Stati nulla da obiettare, ma è davvero difficile non riconoscere i limiti di leggi ferme alle frontiere e all’idea di Stato-nazione a fronte dello strapotere di imprese multinazionali libere di muoversi nel mondo tra lunghissime catene di sub-fornitura e sub-appalti, paradisi fiscali, società anonime e scatole cinesi societarie.
Poco più di un anno fa il crollo del Rana Plaza causava oltre 1.000 vittime in Bangladesh. Un solo, tragico esempio più che sufficiente per mostrare come le imprese inseguano le legislazioni più deboli in ambito di diritti del lavoro, ambientali o sui diritti umani per delocalizzare le produzioni, mentre gli Stati sono impegnati in una gara verso il fondo negli stessi ambiti per attrarre investimenti e capitali.
A oggi molti dei marchi del settore tessile coinvolti non hanno ancora riconosciuto le proprie responsabilità, né hanno contribuito al fondo per il risarcimento dei parenti delle vittime. Il motivo è semplice: il risarcimento è richiesto proprio in base alle linee guida Onu su imprese e diritti umani, non vincolanti, e lasciato quindi di fatto alla buona volontà delle imprese di pagarlo o meno.
Veniamo all’ultimo argomento: un meccanismo vincolante penalizzerebbe le multinazionali mentre molte violazioni sono commesse da imprese locali. Se la legge deve essere uguale per tutte le imprese, sono le normative esistenti nei singoli Stati a dovere essere applicate. Tutto questo mentre UE e Usa sono attivamente impegnati nel negoziato sul libero commercio transatlantico – Ttip. Uno dei capisaldi di tale negoziato è l’istituzione di un meccanismo di risoluzione delle dispute in base al quale un’impresa può fare causa a uno Stato tramite una sorta di tribunale speciale, composto da tre esperti che si riuniscono a porte chiuse, e che decide senza appello se condannare un Paese sovrano. Dispute che possono riguardare anche richieste di rimborsi per potenziali profitti futuri che dovessero venire meno se un governo dovesse promuove una legge “eccessiva” in materia ambientale, sociale o sui diritti del lavoro. Un organo totalmente a-democratico e al quale possono rivolgersi unicamente gli investitori internazionali, mentre le imprese locali devono ricorrere ai tribunali nazionali e i cittadini non vi hanno ricorso.
Nel difendere tale organo di risoluzione delle dispute nel Ttip, la Commissione ha sostenuto che fosse necessario perché alcuni investitori potrebbero non sentirsi tutelati dai tribunali nazionali. In altre parole mentre sui diritti umani devono valere le leggi nazionali e si vota contro un percorso vincolante in sede Onu, per le multinazionali servono meccanismi ad hoc discussi in segreto su base bilaterale. Per i lavoratori del tessile nel Bangladesh sono più che sufficienti le normative locali, ma per le povere imprese multinazionali sono necessari tribunali sovranazionali e su misura.
Siamo oltre l’ipocrisia, oltre ogni decenza. Questi sono oggi i rapporti di potere tra «diritti» delle imprese transnazionali e diritti umani. Ttip da una parte e voto all’Onu dall’altra rendono fin troppo evidente quanto ci sia da fare per ribaltare completamente le priorità e le politiche di questa Europa.