Un patto che chiude un’aspra lotta nel capitalismo italiano e apre nuovi rapporti con la politica. Gli aspetti tecnici, le strategie, gli appetiti di S. Berlusconi
Non sembra che, tutto sommato, riuscire a leggere il senso di quello che sta succedendo intorno a Mediobanca sia veramente un affare troppo complicato, anche se il caso si presta a diversi livelli di lettura, come del resto molte cose in Italia.
I giornali annunciano che, dopo complesse trattative e aspri confronti a distanza, Geronzi, presidente della società e del patto di sindacato degli azionisti di maggioranza, da una parte, e Nagel, amministratore delegato e rappresentante del management, dall’altra, hanno messo a punto una bozza di accordo sul governo della società, che peraltro deve ora passare al vaglio dei soci e della Banca d’Italia. Tale bozza chiuderebbe, almeno per il momento, certo non definitivamente, una delle più aspre lotte di potere che si siano registrate all’interno del capitalismo del nostro paese negli ultimi dieci anni, con l’attiva partecipazione, anche se sotterranea, di una parte almeno del potere politico.
La questione può essere riassunta in tre punti principali, relativi, rispettivamente, allo schema giuridico di governo della società, al ruolo attuale di Mediobanca nel nostro paese, alle strategie future del gruppo.
1) Cominciamo ad esaminare le ragioni del contendere al livello apparentemente tecnico-giuridico della questione.
Come è noto, la revisione del diritto societario attuata dalla compagine berlusconiana nel 2002 ha introdotto anche nel nostro paese la possibilità da parte delle imprese di utilizzare lo schema cosiddetto duale di governo; esso consiste nella introduzione di due consigli al posto di quello tradizionale, uno di gestione, l’altro di sorveglianza. La logica del modello, che tende ad essere sempre più applicato dalle banche di molti paesi europei, appare quella di separare chiaramente le attività di gestione, affidate al primo consiglio, nel quale dovrebbero sedere a rigor di logica gli alti manager della società, che prendono di solito le decisioni operative, da quelle di sorveglianza, affidate alla seconda struttura e che dovrebbe vedere presenti al suo interno i rappresentanti dei soci; essi si dovrebbero limitare a giudicare la condotta e i risultati del management da loro a suo tempo nominato.
Ma l’Italia è un paese sottile, per usare un eufemismo, e questa chiara suddivisione di compiti non poteva certo soddisfare né i nostri legislatori, né i nostri tecnici, azionisti, consulenti di impresa, politici.
D’altro canto, in Italia i principi organizzativi codificati progressivamente da secoli di teoria e di pratica, gli organigrammi formali che in parte almeno ne discendono, i manuali delle norme e delle procedure, sono di solito carta straccia, puri veli dietro i quali si celano soltanto questioni di potere. Così i capi gestiscono il più delle volte le imprese come feudi personali, premiando o punendo i sottoposti sulla base del criterio della fedeltà dimostrata piuttosto che dell’efficienza e dell’efficacia della loro azione. Che si tratti di imprese industriali, di banche, di enti pubblici, di partiti, non si crea nel tempo, di solito, all’interno di tali organizzazioni, un’accumulazione di saperi, di procedure, di processi, che solo fanno un’organizzazione affidabile nel tempo; ogni cambiamento di persone alla testa dei vari enti ed uffici è spesso il pretesto per distruggere tutto l’esistente e ricominciare da zero.
Già, di per sé, il nuovo testo legislativo è aperto a molti possibili arbitrii. Così, nella sostanza e come è anche accaduto, il consiglio di sorveglianza può intromettersi nella gestione, mentre, come anche si è visto nella pratica, il potere di gestione può essere affidato ad un capo monocratico. Ma quando il governatore della Banca d’Italia ha cercato di introdurre dei paletti nella situazione, riportando le cose al loro senso originario, i soci di Mediobanca e il loro rappresentante, nonché presidente della società, Geronzi, che non hanno evidentemente nessuna voglia di cedere una parte del loro potere – immaginarsi in particolare il banchiere romano relegato ad un ruolo che egli giudicava di semplice guardiano delle chiavi-, hanno innescato la rivolta e hanno preteso che la società, che l’anno prima aveva adottato apparentemente con entusiasmo lo schema duale, tornasse al sistema di governo tradizionale, con un solo consiglio di amministrazione.
A questo punto il management e dietro di esso Profumo, amministratore delegato di Unicredit e principale azionista singolo della banca, almeno a livello di patto di sindacato –a livello di quote complessive di capitale controllate, considerando anche quelle al di fuori del patto di sindacato, i principali azionisti diventano i francesi-, hanno dichiarato la loro opposizione alla riforma e, con una controffensiva che è sboccata alla fine in un compromesso, hanno costretto Geronzi e quelli che stanno eventualmente dietro di lui ad accettare una soluzione più equilibrata. Questa volta il faccendiere romano non è riuscito in effetti a liquidare lo stesso management, come aveva a suo tempo fatto con Matteo Arpe, quando stava alla Banca di Roma.
La soluzione è, per altro verso, il solito pasticcio che acquieta le acque per un po’, ma certamente non può funzionare adeguatamente alla distanza.
Intanto si crea un nuovo consiglio, pletorico quasi come il comitato centrale del Pcus, con 22 rappresentanti, proprio mentre Draghi raccomandava invece al sistema bancario degli organismi snelli; evidentemente nel consiglio devono essere rappresentati abbondantemente tutti gli interessi forti, mentre per quanto riguarda le minoranze, esse nel precedente consiglio avevano diritto a due posti, mentre ora ne ottengono uno solo. In compenso, avranno il presidente del collegio sindacale. Sembra che si lascino alcuni posti a dei pretesi consiglieri “indipendenti”, la cui stessa esistenza può solo essere, nella maggior parte dei casi, almeno nel nostro paese, fonte di ilarità. Nel consiglio entrano anche i cinque dirigenti principali del gruppo. Si crea, inoltre, un comitato esecutivo di nove membri, anche in questo caso abbondando; comunque, in tale organismo i manager sarebbero in maggioranza. Geronzi dovrebbe essere presente sia nel consiglio che nel comitato e lo stesso dovrebbe succedere per quanto riguarda i dirigenti citati.
Si ricrea così una confusione organizzativa notevole, con controllori e controllati che vanno a braccetto. In questo momento non è chiaro del tutto chi avrà i poteri effettivi per fare che cosa, in particolare non sono chiare le normative che reggeranno le nomine di consiglieri e sindaci nelle società partecipate – Generali, Rcs-Corriere della sera, Telecom Italia. La decisione di eventualmente licenziare o premiare gli stessi alti dirigenti spetterà anche agli stessi alti dirigenti; Geronzi, sedendo nel comitato esecutivo, dovrà valutare anche se stesso, e così via. Il comitato nomine, la cui importanza appare cruciale – è quello che almeno sino a ieri decideva i nomi dei rappresentanti della società nelle imprese partecipate-, sarà composto da 6 o 7 membri – Geronzi, due rappresentanti del management, poi almeno un rappresentante ciascuno per ogni gruppo di soci, distinti nelle tre categorie di industriali, finanziari, esteri. Continueranno ad esistere un comitato per la governance, uno per le retribuzioni, un altro infine per l’audit dei conti.
A parte questi organi, bisogna poi ricordare che sono in vita anche un’assemblea dei soci, ovviamente obbligatoria per legge, nonché il direttivo e l’assemblea del sindacato di controllo. Decidere qualcosa di importante sarà apparentemente uno scherzo.
Geronzi sarà così, ridicolmente – se la notizia verrà confermata ufficialmente-, presidente del consiglio direttivo e dell’assemblea del patto di sindacato, del consiglio di amministrazione di Mediobanca, del comitato esecutivo e di tutti gli altri comitati ricordati, tranne l’ultimo, evidentemente considerato poco rilevante.
2) Perché peraltro tanto clamore intorno a tutta la vicenda?
Bisogna a questo punto ricordare che Mediobanca è ormai, intesa strettamente come banca, quasi un’ombra di quella che fu un tempo. Le sue dimensioni, le sue quote di mercato, la sua scarsa proiezione a livello internazionale, la collocano in Europa a livello di struttura sostanzialmente regionale, tutto sommato di secondo livello. Certo essa è ancora la più importante investment bank del nostro paese, ma si tratta solo di una relativa consolazione.
Il recente lancio di una banca retail, con una campagna pubblicitaria di bassissima qualità –caratteristica da sempre comune al sistema finanziario del nostro paese e non si capisce bene perché – , l’espansione nel settore del finanziamento ai consumi, non riusciranno apparentemente a portarla molto più in alto. I veri padroni del business bancario in Italia sembrano ormai nella sostanza Unicredit e IntesaSanPaolo. Comunque, in un contesto di decadenza del nostro sistema economico e di restringersi degli orizzonti e delle strategie relative delle imprese, si capisce che anche l’attività bancaria di Mediobanca possa far gola a molti.
Ma il vero punto di forza della banca, quello che spiega gran parte dell’interesse per la vicenda, sta ovviamente e soprattutto nelle partecipazioni detenute in portafoglio: il 15% di Generali, terzo gruppo assicurativo europeo, il 14% di Rcs-Corriere della Sera, il 2,5% di Telecom Italia, aguzzano molti appetiti e comunque collocano la banca al centro di una rete di interessi economici e politici di grande rilievo.
Per altro verso e parallelamente, Mediobanca si colloca al centro di una fitta rete di partecipazioni incrociate, di conflitti di interesse, di antidiluviani patti di sindacato – le cui tecniche, così come quelle delle cosiddette “scatole cinesi”, della leva di capitale e di altre diavolerie, la società aveva a suo tempo molto contribuito a sviluppare -, che continuano a configurare il panorama finanziario ed industriale del paese e a mostrarne il suo volto largamente arcaico. Sono passati tanti governi di centro, di destra, di sinistra, qualcuno anche con annunci di soluzioni miracolistiche, ma gran parte dei problemi sono rimasti su questo fronte più o meno gli stessi. Per non parlare dei guai giudiziari di Geronzi.
3) Ricordiamo che la società, e in particolare il suo management, all’epoca di Cuccia godeva di una grande autonomia dagli azionisti e dal potere politico, autonomia coltivata e riaffermata nel tempo con grande cura; c’era inoltre un’anima laica nel suo operare, che si contrapponeva in misura netta a quella clericale di altri istituti. Questa autonomia è continuata per un po’ a reggere anche nel dopo Cuccia, sino almeno a quando è arrivato Geronzi. Essa sembra ora minacciata dagli sviluppi della vicenda.
La questione dell’autonomia è strettamente connessa a quella delle strategie future del gruppo.
Da una parte il banchiere romano, con legami molto stretti con il mondo politico – e dietro il quale molti vedono inevitabilmente anche l’ombra di Berlusconi -, tende a inserire la banca nelle grandi partite finanziarie in corso nel nostro paese e quindi a legarlo inevitabilmente al carrozzone romano della politica; la banca diventerebbe in qualche modo, come ha scritto qualcuno, il braccio armato del potere politico. In questo quadro, Berlusconi e Geronzi mirerebbero, tra l’altro, a prendere il controllo di Generali e ovviamente del Corriere della Sera – partite certamente non facili, dal momento che sono in gioco altri interessi molto forti; nel caso di Generali, ad esempio, gli importantissimi azionisti francesi. Dall’altra, il management e dietro di esso l’Unicredit, pensano che bisogna continuare a star lontani da Roma e sviluppare invece gli affari che si prospettano divolta in volta sul mercato, in concorrenza con le altre strutture, italiane ed estere, puntando di più sulla capacità tecnica della struttura e sulla lotta concorrenziale.
Da questo punto di vista, Unicredit sta portando avanti, più in generale, una strategia distinta da quella della stessa IntesaSanPaolo, che con la questione Alitalia sembra presentarsi con una linea perlomeno più ambigua, se non di accordo con i palazzi del potere.
Tra l’altro, Unicredit sembra volere, più in generale, il distacco delle attività di banca d’affari del gruppo Mediobanca da quelle di banca di partecipazioni, attività quest’ultima che sarebbe con il tempo da liquidare. Profumo tende a puntare per la sua stessa banca sulla carta dell’internazionalizzazione e del distacco progressivo dalle vicende politiche nazionali.
Visto il quadro della situazione, ci sentiamo di simpatizzare, sia pure con moderazione, con l’anima manageriale e laica della banca, che sembra perlomeno avere un piano di dignitosa modernizzazione della finanza italiana e della stessa Mediobanca, aspettando che comunque maturi nei prossimi mesi qualche nuovo, non improbabile, colpo di scena.