Unione a pezzi/Dietro l’apparente immobilismo delle consultazioni si profila il rischio di una doppia exit: quella della Gran Bretagna dall’Ue e quella della Scozia dal Regno Unito
Ci sono elezioni trionfali che marcano in maniera chiara un cambio di fase e inaugurano una trasformazione negli assetti politici di un paese con conseguenze di lunga durata. Elezioni come quelle del 1979 che portarono la Thatcher al governo, segnando l’inizio dell’egemonia neoliberale sulla Gran Bretagna e tutto l’occidente. O come quelle del 1997, che con una valanga di voti portarono al potere Tony Blair, e inaugurano la politica della Terza Via con i tanti suoi epigoni da Schroeder a Prodi. E ci sono poi elezioni scialbe, eventi grigi che sembrano confermare in maniera indolente gli assetti polici esistenti, più per la mancanza di una vera alternativa che per un effettivo consenso popolare per lo status quo. Le “general elections” britanniche del 2015 appartengono alla seconda categoria. Sono elezioni nel segno della continuità, e una continuità scialba. Ma dietro l’apparente immobilismo di queste consultazioni, la cui sola novità in termini dell’assetto di governo è la maggioranza monocolore dei Tory, invece che la loro coalizione con i liberaldemocratici, si profila un vero e proprio terremoto geopolitico ed il rischio di una doppia “exit”: quella della Gran Bretagna dall’Unione Europea, e quella della Scozia dal Regno Unito.
Dopo la speranza di cambiamento in senso progressista suscitata dal successo di Syriza in Grecia, e la crescita di Podemos in Spagna, le “general elections” britanniche sono una vera doccia fredda, che confermano come il neoliberalismo dato prematuramente per morto, continua a sopravvivere in stato di zombie ai propri evidenti fallimenti. La consultazione elettorale non ha proposto l’immagine di una popolazione infuriata per i tagli alla spesa pubblica e l’arroganza dei banchieri, confermata durante la campagna elettorale dallo scandalo dell’HSBC, e pronta a svoltare a sinistra. Ma non ha neppure segnalato una cementazione egemonica del consenso per i Tory e il loro thatcherismo (poco) compassionevole, che sta usando nuovamente la bolla immobiliare, causa della crisi del 2008, come strumento per la creazione di ricchezza. Si è trattato insomma più di una sconfitta del Labour di Ed Miliband, della sua incapacità di convincere la popolazione sulla credibilità di una alternativa economica, che di un trionfo dei Tory, nonostante questi potessero vantare buoni dati macroeconomici in termine di posti di lavoro e PIL.
Il carattere sbiadito di questa competizione elettorale, in cui l’affluenza si è fermata al 66%, è visibile nei millimetrici movimenti elettorali dei due principali partiti. I Tories hanno visto aumentare il loro voto popolare di appena l’1%, arrivando al 36% mentre il voto del Labour è cresciuto dell’1,4%, con il 29% dei voti. Tradotto in termini di seggi questo risultato significa una maggioranza, seppur risicata, per i Tory alla camera dei comuni, mentre il Labour perde 24 seggi. L’unico vero segnale di rabbia popolare è la disfatta dei liberaldemocratici. Punito per la sua collaborazione alla politica lacrime e sangue del governo, il partito di Nick Clegg ha perso il 15% di voti rispetto al 2010, passando da 56 a 8 seggi. Al contempo queste elezioni hanno segnato un’avanzata storica dei partiti minori, con il partito anti-europeista UKIP che raggiunge il 12% dei voti, il migliore risultato di sempre nelle elezioni nazionali, mentre i Verdi ottengono il 3.8%. Ma i veri trionfatori di queste elezioni sono stati i nazionalisti scozzesi dello Scottish National Party che hanno conquistato 56 seggi su 59 in Scozia, riaprendo la questione dell’indipendenza di Edinburgo dal resto del paese.
Il successo impressionante della formazione guidata dalla carismatica Nicola Sturgeon, dimostra come il partito indipendentista è stato tutt’altro che scoraggiato dalla sconfitta nel referendum del 2014 sull’uscita della Scozia dal Regno Unito. Di fronte all’inconsistenza del programma elettorale del Labour party, privo di promesse entusiasmanti sul fronte delle politiche sociali, lo SNP è riuscito a proporsi come unica vera alternativa al potere dei Tory. Il Labour si trova cosi’ cacciato da quella che era la sua tradizionale roccaforte elettorale, un risultato dovuto sia ad una lunga insofferenza per il posizionamento centrista del partito durante l’era Blair, e la sua complicità con i finanzieri della City, sia per la sua alleanza con i Tory nella campagna per il referendum. Il risultato è di proporzioni tali che secondo molti commentatori la secessione scozzese non è piu una questione di “se” ma “quando”.
Il secondo grande scossone geopolitico prodotto da queste elezioni ha a che fare con la relazione travagliata tra Regno Unito e l’Unione Europea.
Una delle promesse elettorali dei Tory, per limitare l’avanzata dello UKIP era quella di indire un referendum sull’Europa entro la fine del 2017. David Cameron e la sua base di supporto nel partito non vuole un’uscita totale dall’Unione Europea, ma vuole piuttosto utilizzare questo appuntamento referendario per mettere pressione su Bruxelles e rinegoziare alcuni accordi a partire dall’immigrazione, tema chiave per l’elettorato dello UKIP che minaccia da destra i conservatori. Quale che sia il risultato della consultazione del 2017, la Gran Bretagna sembra avviata ad un progressivo distacco dall’Unione Europea.
Lo scenario aperto dalle elezioni del 2015 in Gran Bretagna è dunque quello di una possibile disintegrazione del Regno Unito e situazioni paradossali come quello di un Regno Disunito, con un’Inghilterra fuori o ai margini dell’Unione Europea, e una Scozia indipendente e dentro l’Unione Europea. Per molti indipendentisti scozzesi e i loro simpatizzanti a sinistra si tratta di uno scenario di speranza, un’occasione di vendetta contro il colonialismo e il capitalismo finanziario inglese. Ma c’è del tragico in questa possibile disintegrazione del Regno Unito, specie per chi in Inghilterra dovrà rimanerci, e dovrà fare i conti con un paese il cui equilibrio politico sarà schiacciato fortemente a destra e la cui economia sarà orientata ancora di più verso la finanziarizzazione e la rendita, e in cui sarà molto difficile costruire un’egemonia di sinistra.