Oggi l’85% delle attivazioni di rapporti di lavoro è costituita da contratti a tempo determinato, nel 35% dei casi si tratta di lavori con durata effettiva inferiore ai 30 giorni, per 1,5 milioni di contratti di un solo giorno. La precarietà colpisce soprattutto le donne e il Sud.
Voto Sì ai 5 quesiti proposti dal Referendum dell’8 e 9 giugno perché il Jobs Act non ha interrotto il circolo vizioso tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita che caratterizza da quasi vent’anni l’economia italiana.
Voto Sì per l’abrogazione delle norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine. Cancellare queste norme permetterebbe di ridimensionare l’utilizzo dei contratti a termine e vincolarlo ad alcuni casi specifici.
Oggi circa l’85% delle attivazioni di rapporti di lavoro è costituita da contratti a tempo determinato. Fra questi contratti a tempo determinato, solo una minima quota tra il 5 e il 7% si trasforma in rapporti a tempo indeterminato.
Il 35% delle attivazioni riguarda rapporti di lavoro con durata effettiva inferiore ai 30 giorni lavorativi. 1,5 milioni di contratti hanno durata di un solo giorno.
La probabilità di transizione degli occupati da lavoro temporaneo a lavoro standard, inteso come permanente e a tempo indeterminato, è diminuita nel tempo ed è oggi inferiore al 20%. Vale a dire, solo un lavoratore/una lavoratrice su cinque transita verso un’occupazione più stabile.
Non è dunque vero che il contratto a tempo determinato rappresenta un “trampolino di lancio” verso un’occupazione di qualità. Questo vale soprattutto per le donne: periodi più lunghi di impiego temporaneo non si traducono in una maggiore probabilità di stipulare un contratto permanente. Oggi, quasi una donna su due fra i 15 e i 30 anni lavora mediante un contratto a tempo determinato.
Inoltre, la precarizzazione del mercato del lavoro ha aggravato la disuguaglianza tra Nord e Sud d’Italia: la quota di lavoratori dipendenti a tempo determinato è del 20% nel Mezzogiorno, 32% se si guarda alla componente di genere. L’aumento si è concentrato negli anni successivi al Jobs Act, con una crescita forte soprattutto nel Sud del paese.
Bisogna dunque limitare l’espansione del lavoro a termine che genera povertà lavorativa a livello individuale e familiare. Il lavoro a termine senza vincoli ha consentito una riduzione dei costi del lavoro e un aumento dei profitti, nel lungo periodo riduce gli incentivi all’innovazione, ha un impatto negativo sulla produttività ed erode la formazione e le competenze dei lavoratori e delle lavoratrici.
Bisogna vincolare l’uso dei contratti a termine a casi specifici e porre un limite ai loro rinnovi.
Votiamo l’8 e il 9 giugno sì per l’abrogazione delle norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine.
Valeria Cirillo è un’economista, docente di Economia politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’università di Bari