La scrittrice coronata quest’anno dal Nobel è coreana, di un paese che non ha mai avuto prima un Nobel, ed è brava, anzi è molto brava e il Nobel lo ha meritato. Dopo il primo tradotto, “La vegetariana”, arriva per Adelphi “Non dico addio”.
La scrittrice coronata quest’anno dal Nobel è coreana, di un paese che non ha mai avuto prima un Nobel, ed è brava, anzi è molto brava e il Nobel lo ha meritato.
Imparammo a conoscerla leggendo un romanzo assai bello, il primo tradotto nella nostra lingua, La vegetariana, a cui personalmente rimprovero soltanto, da vegetariano, la visione un po’ cupa che di questa scelta, in verità vitale nel rispetto delle vite animali e quindi anche di quelle umane (ché anche noi siamo animali e questo non dovrebbe rendere così inspiegabile, per i carnivori, il cannibalismo). Grazie alla Adelphi (e alle due curatrici della traduzione, Lia Iovenitti che sa il coreano, Milena Ciccimarra che l’ha assistita nell’italiano) continuiamo ad apprezzarla leggendo ora un romanzo di forte valore storico. Dalla vicenda di un’amicizia femminile, la narratrice risale a quella dei genitori, della generazione che vide, tra la fine del 1948 e l’inizio del ‘49, il massacro di trentamila civili (e non si contano quelli che, torturati, ebbero però salva la vita; e non si contano quelli che portarono per sempre i segni della tortura pur sopravvivendo).
Nel confronto ospedaliero con un’amica malata, una che fa documentari e traffica coi documenti storici, Gyeongha finisce per confrontarsi con quella orrenda tragedia, con uno dei tanti disastri della storia. La storia, “uno scandalo che dura da diecimila anni” scrisse la Morante…
Assistiti dagli americani, i coreani anticomunisti fanno massacro dei coreani comunisti, anche dei loro figli, dei neonati privi di ogni presunta colpa. E peraltro i coreani comunisti radunati sui monti non fanno molto per proteggere quelli delle pianure.
“Dopo la costituzione del governo, nel 1948, chiunque fosse stato schedato come simpatizzante di sinistra veniva iscritto alla Lega Bodo per essere rieducato. Bastava che qualcuno avesse anche solo assistito a un raduno politico, perché tutti i membri della sua famiglia finissero nelle liste. C’erano anche molte persone iscritte arbitrariamente dai rappresentanti di quartiere o di villaggio per rispettare le quote stabilite dal governo, e altre che entravano a farne parte di propria volontà, dietro la promessa di riso e fertilizzanti. Venivano registrati interi nuclei famigliari per volta, inclusi donne, anziani e bambini. Quando era scoppiata la guerra, nell’estate del 1950” (la guerra tra Corea del Nord e del Sud, assisti ti i primi dall’Urss e i secondi dagli Usa) “erano state messe agli arresti preventivi e poi giustiziate innumerevoli persone. Si stimava che in tutto ne fossero state uccise e seppellite in gran segreto tra le duecentomila e le trecentomila.”
E peraltro l’autrice non è tenera nel giudizio sul comportamento dei comunisti radunatisi sulle montagne, che non intervennero a difendere quelle vittime, e tuttavia pronti alla guerra.
Nelle pagine finali, Han Kang dice esplicitamente che “c’era un ordine ben preciso del governo militare americano: bisognava fermare l’avanzata del comunismo, anche a costo di uccidere tutti i trecentomila gli abitanti dell’isola”. L’isola in cui Gyeongha rievoca quei fatti con l’amica malata, che ha avuto le sue vittime. E dove sente vicini quei fantasmi, quel passato. E dice che non bisogna dimenticare, dice Non dico addio a quella storia, a quei morti.