Gianfranco Viesti, economista all’università di Bari: “Gli atenei potrebbero essere un altro fronte dell’opposizione”. 513 milioni di euro: questo sarebbe il taglio complessivo alle risorse dell’università a cui sta pensando il governo, 173 milioni al fondo ordinario, 340 milioni al piano di reclutamento straordinario.
Gianfranco Viesti, economista all’università di Bari, ha studiato la realtà dell’università italiana in libri come La laurea negata (Laterza) e L’università in declino (Donzelli) A lui chiediamo di analizzare le prospettive che si aprono con i nuovi tagli in arrivo dal governo Meloni.
Professor Viesti come spiega i tagli complessivi da 513 milioni di euro agli atenei?
La destra attacca sempre i grandi servizi pubblici. Sono operazioni molto meno visibili di quelle che toccano gli individui, con la significativa eccezione italiana del reddito di cittadinanza. Si fa cassa sui grandi servizi universalistici. I tagli arriverebbero dopo un breve periodo in cui, dal governo Gentiloni in poi, non dico che l’università sia stata rilanciata ma almeno è stata fermata la sua demolizione iniziata dalla Gelmini e proseguita a lungo.
È possibile che i tagli siano la conseguenza della riattivazione del patto di stabilità europeo e della spending review che il governo Meloni ha iniziato a fare ben prima che il patto tornasse in vigore?
Possibilissimo. Il mio giudizio su questo governo è negativo, lo vedo all’opera con la sola finalità di mantenere il potere a tutti i costi. Taglia e taglierà dove costa meno in termini di consenso.
Cosa ci si può aspettare dalla prossima legge di bilancio vista anche la procedura di infrazione per deficit eccessivo?
La procedura non è colpa di Meloni, è il frutto della versione finale del patto di stabilità che è molto negativa e rischiosa soprattutto per l’Italia. Per capire cosa rischiamo basta ricordare quali sono stati gli effetti prodotti dall’austerità negli anni Dieci. Investimenti bloccati e servizi pubblici scarnificati. Abbiamo avuto la dimostrazione che il livello della domanda interna è decisivo, al contrario di quanto dicono i teorici neoliberali. Comunque, è preoccupante quello che sta accadendo. La speranza è che gli anni della ripresa post-covid abbiano dato più tono alla nostra economia. Vedremo.
Quali saranno gli effetti degli eventuali tagli sulle piccole e medie università a Sud e nel Centro-Nord?
A parità di regole tenderà a consolidarsi la frattura geografica esistente; in passato vi è stata una contrazione, selettiva (fra atenei) e cumulativa (decisioni che producono effetti nel tempo). Ha riguardato tutto il Centro-Sud, Toscana, Lazio e Marche compresi. E poi il Nord periferico: Liguria, Piemonte e Friuli. Chi ha resistito meglio sono state le università collocate nel triangolo Milano-Bologna-Veneto. Anche senza nuove decisioni queste disparità tendono ad ampliarsi nel tempo. Bisognerebbe intervenire per cambiare quei meccanismi, a cominciare dal ruolo improprio dell’Anvur. Invece, pare che si intervenga per mutare le regole di riparto, come è stato segnalato sul sito Roars, per accrescere ancora la selettività.
Il Pnrr ha immesso cospicue risorse nel sistema universitario. Quali sono stati i risultati?
È stata presa la decisione, a mio avviso discutibile, di inondare le università con finanziamenti straordinari una tantum da usare in un lasso di tempo molto breve e con personale precario reclutato ad hoc. Sarebbe stato meglio usare una parte rilevante di queste risorse per aumentare il finanziamento pluriennale ordinario. Ora abbiamo molte possibilità per fare ricerca anche se con tempi rapidissimi e con regole barocche. Ma dal 2026 cambia tutto. Ci sarà un atterraggio durissimo.
Perché?
Perché finirà lo straordinario e non ci sarà l’ordinario. Penso a tutti coloro che stanno lavorando da assegnisti e contrattisti: per loro non ci sarà posto all’università. Torneranno ad essere difficili reclutamenti e avanzamenti di carriera, specie al Centro-Sud.
Il governo ha annunciato una revisione del pre-ruolo che moltiplica le figure precarie e un intervento complessivo che rafforzerà l’impostazione originale della legge Gelmini del 2010. Che tipo di università vogliono creare?
Bisogna capire se prevarrà la linea neoliberista di creazione di un’università a più livelli sociali e territoriali, il vecchio disegno dei liberali italiani. Oppure se resisterà una qualche vocazione sociale. Difficile dire: la maggioranza non ha un disegno comune di paese.
Dal 2008 al 2010 contro le riforme Gelmini un intero paese andò in piazza. Dopo 15 anni di assenza di un dibattito pubblico sull’università e sulla ricerca, e di destrutturazione interna della partecipazione, sarà possibile organizzare una risposta?
Sarà difficile, mi pare si sia persa l’abitudine. Il corpo universitario in questi anni è stato troppo acquiescente e ricurvo sul suo particulare. Ma mai essere scettici a priori. Spero che soprattutto i miei colleghi più giovani, come chiedo sempre loro di fare, lottino per evitare che l’università diventi ancora peggiore di quella del passato. Spero che con l’inizio dell’anno accademico ci sia una reazione: la contrapposizione politica generale potrebbe aiutare, l’università potrebbe essere un altro fronte di contrasto al governo Meloni. Naturalmente senza dimenticare che le responsabilità della crisi dell’università non sono solo della destra. Tutt’altro.
Intervista pubblicata da il manifesto del 28 luglio 2024