Nessuna programmazione, tutto rinviato a settembre. Si dà la colpa alla congiuntura, alle nuove regole del Patto di Stabilità e al famigerato Superbonus. La verità è un’altra. E a settembre il governo si troverà in grossi guai. Tra l’altro alla spesa pubblica primaria mancheranno 70 miliardi.
“Ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, non è stata colpa mia, lo giuro su Dio!“. Sono, le giustificazioni che, in un crescendo di concitazione, il “Blues Brother” John Belushi presenta ad una Carrie Fisher abbandonata sull’altare, assetata di vendetta e armata di mitragliatrice.
E’ quanto torna alla mente nel leggere, nel DEF 2024 frasi come “Il peggioramento rispetto alle previsioni del settembre dell’anno scorso è completamente ascrivibile a fattori inattesi e di carattere non strutturale“, che ne riassume il leitmotiv, peraltro non nuovo al governo Meloni: “Ne sono successe di tutti i colori, nessuno nella storia dell’umanità prima di noi si era dovuto confrontare con difficoltà del genere“.
Con tutto la simpatia e l’indulgenza che possiamo avere per lo studente impreparato, chiamato alla cattedra dall’arcigno professore, non possiamo non richiamare che, prima di loro, governi e governi hanno dovuto affrontare, solo negli ultimi anni: Covid, crisi internazionali e nazionali pesantissime, con riduzioni mai viste da un anno all’altro del PIL nel 2009 e nel 2020, attacchi speculativi, senza voler tornare al baratro dei conti pubblici degli anni ’90, agli shock petroliferi e all’inflazione degli anni ’70 e via così, fino alla crisi del ’29, alle sanzioni all’Italia per l’invasione dell’Etiopia nel ’35, al blocco del commercio internazionale durante le guerre puniche e alle cavallette dell’Antico Testamento richiamate da Belushi.
Eppure, la situazione economica non sarebbe neanche così negativa, anche se, come scrivono gli autorevoli congiunturalisti del REF nelle loro ultime previsioni, “sullo sfondo restano rischi geopolitici impressionanti e la necessità di realizzare politiche di trasformazione radicale dei processi di produzione“.
Infatti la bilancia dei pagamenti è in positivo (soprattutto grazie al turismo), una qualche crescita del PIL, sia pur troppo stentata, c’è e c’è stata, la politica monetaria è tornata “alla normalità” di tassi positivi senza indurre una recessione, la spinta inflazionistica sembra essere stata contenuta senza avvitamenti, grazie alla riduzione dei salari reali. La crescita dei tassi di interesse ha fatto aumentare l’onere del debito pubblico ma si è ormai arrestata, cosicché l’onere effettivo si sta rivelando notevolmente inferiore rispetto alle previsioni, il ché libera risorse per 5-6 miliardi l’anno. Anche l’occupazione (precaria) è in crescita e, a quanto dice il governo, l’evasione è in calo, senza contare l’occasione storica rappresentata dal simultaneo avvio degli investimenti PNNR e della nuova programmazione di fondi europei, che potrà dispiegare nei prossimi due-tre anni un importante effetto traino.
Malgrado tutto ciò, l’atteggiamento che pervade ogni pagina del DEF suona di scusa dello studente, a fronte, peraltro, di un’interrogazione programmata. Allo stesso tempo, lo studente blandisce il professore, raccontando che tutto è a posto e che, a tempo dovuto (a settembre), mostrerà il quaderno con tutti i compiti fatti per benino.
La scusa principale, richiamata in mille e mille occasioni, è il “Superbonus 110%”, bandiera 5 Stelle e responsabilità prima del governo giallorosso Conte 2, che avrebbe dissanguato e continuerebbe a dissanguare il Paese.
«E poi, Prof, inutile studiare adesso, quando a settembre cambiano i libri di testo!» Tradotto: inutile fare adesso, per tempo, programmazione economico-finanziaria, quando la nuova governance economica europea non è ancora operativa, non si conoscono ancora i parametri del sentiero di rientro che l’Europa chiederà all’Italia e, anzi, mettere nero su bianco delle cifre potrebbe inficiare l’efficacia della trattativa autunnale con la UE.
«Comunque, Prof, ti assicuro che è tutto a posto!» Il ministro Giorgetti nelle premesse sottolinea come “le tendenze di finanza pubblica sono ampiamente allineate con gli andamenti programmatici della Nota di aggiornamento del DEF [NADEF] dello scorso settembre“, tanto che “non si è ritenuto necessario definire nel DEF degli obiettivi diversi dalle grandezze di finanza pubblica che emergono dal profilo tendenziale a legislazione vigente e che sono largamente in linea con lo scenario programmatico della scorsa NADEF“.
Il fatto è, però, che, dopo ormai due manovre e due DEF, le scuse non reggono più e questo governo i compiti a casa non li ha ancora iniziati (e forse non sa come farli).
La scusa principe non funziona, perché, con tutto il male che si può dire e pensare del “Superbonus”, i suoi oneri si scaricano soprattutto sugli anni passati, mentre l’impatto 2024 è responsabilità piena di questa compagine di governo e, ancor più, del suo ministro dell’Economia, che nel governo Draghi, governo che ne confermò l’impianto, certo non aveva un ruolo marginale, così come il suo partito, la Lega. Tanto è vero, che, alla ricerca del capro espiatorio, l’indice viene puntato sul tecnico di turno, il Ragioniere generale dello Stato Mazzotta (così magari si fa anche da parte, lasciando posto a qualcuno più fidato).
Quanto al «tutti i conti a posto», magari!
Anche a dire del ministro Giorgetti, pur coi “tranquillizzanti” numeri sul deficit contenuti nel DEF (-7,2%, 4,3%, -3,7%, -3% nel quadriennio 2023-2026), lo stesso governo dà, di fatto, per scontata l’apertura da parte della UE di una procedura per deficit eccessivo. Lo conforta, però, il pensiero che l’Italia non sarà sola e che potrà mostrare immediati miglioramenti rispetto all’anno critico 2023, da cui prenderà spunto la procedura. Anno, peraltro, di sua esclusiva responsabilità, in quanto la legge di bilancio 2023 è targata governo Meloni.
Inoltre il DEF presenta i numeri nello scenario “a legislazione vigente”, quasi nascondendo, poi, in due scarne tabelle non commentate di una riga ciascuna, lo scenario “a politiche invariate” e, infine, rinunciando (sono i compiti rimandati a settembre) ad elaborare un qualsivoglia scenario “programmatico”.
Tuttavia il confortante scenario a legislazione vigente non tiene conto che, mai come quest’anno, le più importanti misure previste nell’ultima legge di bilancio e in vari decreti legge sono finanziate solo per il 2024 e scadranno, se non rifinanziate: un elenco non esaustivo contempla la decontribuzione per i redditi fino a 35mila euro, l’accorpamento dei due scaglioni inferiori dell’IRPEF, la detassazione del welfare aziendale, le norme, pur già edulcorate, su Opzione donna, Ape sociale e Quota 103…. Senza dilungarsi nello spiegare quali interventi abbia considerato nelle “politiche invariate”, il DEF, comunque, dà un’indicazione importante: che già solo così il deficit aumenterebbe di 1 punto di PIL l’anno in media nel triennio 2025-2027. Traduzione: mancano 20 miliardi anche solo per confermare per il 2025 i provvedimenti approvati nella legge di bilancio 2024, buoni o cattivi che siano. Tutto ciò, senza considerare che la legge di bilancio 2025 dovrebbe legittimamente porsi anche altri obiettivi e necessitare, come tutte le leggi di bilancio, di finanziamenti: autonomia differenziata, spese militari, ponte sullo Stretto, prosecuzione della riforma fiscale sono tutti interventi cari al governo che richiederebbero somme importanti, senza contare promesse elettorali come “quota 41” per le pensioni, di cui nessuno più osa parlare, o le quanto mai urgenti risorse di cui disperatamente necessiterebbero scuola e sanità pubblica.
In questo contesto appare in tutta la sua gravità la scelta del DEF di rinunciare alla costruzione di uno scenario programmatico. I compiti non fatti, si sa, poi si accumulano, e a settembre il governo si troverà ingolfato e a dovere, per giunta, finanziare l’equivalente di due leggi di bilancio (la prossima e la passata) con la spada di Damocle della procedura di infrazione europea, che potrebbe estendersi anche al debito.
In queste condizioni, difficile pensare che a settembre verranno individuati grandi spazi di manovra. Viceversa, è probabile l’accentuarsi della restrizione fiscale, con PNRR (e fondi europei) quali unici veri motori di crescita.
Nello scenario del DEF la spesa pubblica primaria è già data in caduta di 3,2 punti di PIL fra 2024 e 2027 (dal 47,2% al 44%), verranno meno dunque qualcosa come 70 miliardi. A parte il recupero nel 2024 per il rinnovo dei contratti, la spesa per dipendenti pubblici si ridurrà di mezzo punto di PIL, 11-12 miliardi. Sicuramente si confermerà, e forse accentuerà, la stretta sull’indicizzazione delle pensioni (a meno che il calo dell’inflazione non la renda inutile), e quella sui pensionamenti, con buona pace, come detto, della promessa elettorale di “quota 41”. Difficile che siano finanziate realmente la riforma della non autosufficienza e i livelli essenziali nel sociale e in sanità.
Al contrario, vista la tradizionale prospettiva dei nostri governanti, per la quale il costo del lavoro e il cuneo fiscale e contributivo sono le sole cause di tutti i mali dell’economia italiana, più che probabile che le poche risorse disponibili vengano tutte convogliate nel confermare, e se possibile accentuare, le attuali decontribuzioni e riduzioni fiscali, orientandole sempre di più a favore di lobby e ceti di riferimento dei partiti della compagine di governo, a spese, necessariamente, della spesa pubblica e, in particolare, della spesa per welfare e servizi pubblici.
Rimane, come detto, solo il PNRR quale motore di crescita, più e più volte richiamato nel DEF. Ma, affinché il PNRR si trasformi in uno strumento di effettivo rilancio e rafforzamento della struttura economica italiana, capace di innescare le già richiamate, necessarie “politiche di trasformazione radicale dei processi di produzione” servirebbe una vision e una programmazione cui il DEF, e più in generale l’attuale governo, esplicitamente rinunciano. Nessun accenno, ad esempio, alla necessità di programmare la messa a regime dei progetti PNRR, che potrebbero semplicemente morire alla conclusione, per mancanza di fondi ordinari con cui poi gestire e mantenere gli investimenti PNRR effettuati. Men che meno, l’accenno ad una vera politica industriale.
Governo auto-rimandatosi a settembre, dunque, ma, in attesa dell’interrogazione con l’arcigno professore a settembre, meritevole, già ad aprile, di una sonora bocciatura da parte del Paese.