Il rinnovato interesse per una prospettiva di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario si accompagna alla difficoltà di valutazione degli effetti a posteriori su occupazione, organizzazione del lavoro e produttività. Sotto quest’ultimo aspetto si registrano risultati significativi per il “work-life balance”.
In questi ultimi tempi, il dibattito sui possibili effetti di una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è particolarmente vivace ed è anche piuttosto ricorrente sui media. Dopo le esperienze francesi e tedesche degli anni ’90, il tema sembra aver acquistato nuovo slancio a seguito della pandemia da coronavirus, durante la quale molte imprese hanno dovuto testare nuove modalità di lavoro. Del resto, in questi anni, si contano diverse sperimentazioni avviate in Europa, alcune delle quali rivolte ad una quota significativa di imprese e lavoratori. Si tratta perlopiù di progetti-pilota introdotti e monitorati in funzione del possibile impatto positivo che la riduzione dell’orario potrebbe fare registrare nelle economie nazionali sui tassi di occupazione e sulla produttività del lavoro. E secondo gli osservatori e il management delle imprese coinvolte, sia sul piano della soddisfazione dei dipendenti che su quello della produttività, i risultati appaiono molto positivi, per quanto ovviamente non generalizzabili.
Anche in Italia il dibattito politico è tornato ad occuparsi di questa tematica, e alcune imprese di grandi dimensioni, attraverso la contrattazione integrativa di secondo livello, hanno concretizzato proposte di riduzione dell’orario. È il caso di Intesa Sanpaolo, che da gennaio 2023 ha introdotto la settimana corta di 4 giorni da 9 ore lavorative settimanali a parità di retribuzione, di Automobili Lamborghini, che con un accordo firmato dalle RSU aziendali ha previsto una riduzione strutturale dell’orario a parità di salario, e di EssilorLuxottica, che ha avviato alla fine del 2023 una sperimentazione volta ad introdurre la giornata lavorativa di quattro giorni.
Il dibattito sollecitato da queste iniziative prende le mosse dai dati pre-pandemia relativi al totale di ore lavorate, che nel nostro Paese risulta tra i più elevati se raffrontato a quello delle principali economie dell’Eurozona.
È bene evidenziare come i dati Ocse ci indichino che, nei Paesi europei dove si lavora più ore a settimana, non sembra registrarsi una crescita dei livelli di produttività né dei salari. Allo stesso modo, emerge che le economie europee che si distinguono per tassi di disoccupazione sotto la media, hanno anche orari di lavoro pro capite più bassi. Inoltre, Italia e Grecia, due dei Paesi UE con un più alto numero di ore lavorate, fanno anche registrare valori inferiori della produttività del lavoro, come evidenziato da Pasquale Tridico nel suo recente Welfare e lavoro in Italia prima e dopo il Covid (Giappichelli, 2023).
La discussione su una prospettiva di policy connessa alla riduzione dell’orario a parità di salario, investe altresì aspetti attinenti ad un migliore equilibrio tra vita lavorativa e privata, come salute, stress e benessere generale dei lavoratori, oltre che distribuzione dell’occupazione, parità di genere, sicurezza, sostenibilità. Aspetti che tra l’altro emergono in maniera significativa anche dal Benchmarking Working Europe 2018 a cura dell’ETUI. Non a caso, nelle economie sviluppate, e almeno fino alla pandemia, si è registrato un aumento generalizzato del tempo parziale come strumento per evitare le insidie del troppo lavoro, e ottenere quindi un miglior work-life balance. Ma la scelta del part time non è neutrale in termini di genere: secondo i recenti dati Eurostat, in alcuni Paesi la percentuale di donne che lavorano secondo questa modalità oraria supera la quota di un terzo, e il gap è ancora maggiore per le lavoratrici con figli. Si consideri anche che il part time spesso non si configura come libera scelta, ma viene accettato in assenza di proposte di full time, come sottolinea il VI rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale (2022).
La riduzione del tempo di lavoro è inoltre correlata alla necessità di porre rimedio alle accresciute diseguaglianze di un mercato del lavoro fortemente caratterizzato dalla segmentazione tra insider e outsider, e tra lavoratori di imprese solide e lavoratori di piccole imprese esposte maggiormente alle variabili congiunturali. Una riduzione dell’orario potrebbe agire in termini di redistribuzione, poiché libererebbe spazio occupazionale proprio in quelle imprese in grado di poter domandare lavoro.
Peraltro, la riduzione dell’orario di lavoro potrebbe rappresentare un incentivo per le imprese a innovare, scoraggiando quelle strategie competitive più orientate al contenimento dei costi – attraverso la moderazione salariale per tramite di contratti non standard – e stimolando la crescita della produttività mediante investimenti di matrice tecnologica. A ciò si aggiunga che la riduzione dell’orario richiede in genere una sostanziale riorganizzazione dei processi produttivi, che potrebbe incidere positivamente sulla produttività oraria poiché porterebbe a produrre di più in un lasso di tempo minore. Aumenti della produttività del lavoro possono inoltre determinarsi come diretta conseguenza della maggiore concentrazione e dell’aumentata spinta motivazionale dei lavoratori, come evidenziato dalla letteratura empirica sul tema.
Infine, si guarda alla riduzione dell’orario di lavoro anche in prospettiva della digitalizzazione e della robotizzazione: redistribuire il lavoro potrebbe pertanto divenire una necessità in un futuro in cui le macchine avranno un peso sempre più rilevante nei processi produttivi.