La manovra del “vorrei ma non posso”. È questa l’impressione che si ha leggendo la Legge di Bilancio 2018 trasmessa lo scorso 31 ottobre al Parlamento, in notevole ritardo rispetto alla scadenza del 20 ottobre prevista dalla normativa. Un ritardo che evidenzia la difficoltà nel chiudere i conti, ma anche l’ulteriore riduzione di spazio di […]
La manovra del “vorrei ma non posso”. È questa l’impressione che si ha leggendo la Legge di Bilancio 2018 trasmessa lo scorso 31 ottobre al Parlamento, in notevole ritardo rispetto alla scadenza del 20 ottobre prevista dalla normativa. Un ritardo che evidenzia la difficoltà nel chiudere i conti, ma anche l’ulteriore riduzione di spazio di dibattito per un Parlamento che ha sempre meno voce in capitolo sui conti dello Stato.
La sostanza della Legge di Bilancio viene discussa e decisa altrove e in primo luogo viene pesantemente ingabbiata nei limiti e vincoli degli accordi europei siglati dal nostro Paese. In questo senso, se l’approvazione finale della manovra in Parlamento è ormai un atto poco più che formale, entro fine anno lo stesso Parlamento dovrà decidere se ratificare il Fiscal Compact, trattato che ci obbligherebbe a riportare entro venti anni il rapporto debito/Pil al 60%.
Come dire che, indipendentemente dai Governi in carica, ci vincoliamo a venti anni di alta imposizione fiscale, tagli alla spesa e rinuncia a qualsiasi seria politica pubblica di investimento nel nome di un parametro economico deciso oltre due decenni fa. Quella del 2018 è l’ennesima manovra figlia di questa visione e dell’austerità, di politiche economiche sbagliate che non hanno fatto altro che aggravare e allungare la crisi e aumentare ulteriormente le diseguaglianze.
Ancora una volta gran parte delle risorse disponibili devono andare alla sterilizzazione delle clausole che provocherebbero un aumento dell’Iva. Un impegno estremamente gravoso quanto necessario, per diversi motivi. Primo, vista la quantità di risorse già impegnate negli scorsi anni, sarebbe una follia e una pesante sconfitta non riuscire a scongiurarne l’aumento. Secondo, parliamo di un’imposta estremamente regressiva: colpisce i consumi e viene pagata da tutti nella stessa misura, pesando quindi in proporzione molto più sui poveri che sui ricchi. Terzo, un aumento dell’Iva porterebbe a deprimere una già fragile domanda interna.
Fermo restando che è dunque necessario scongiurare l’aumento dell’Iva, come provocazione verrebbe da domandarsi se sia almeno stata fatta una stima del costo complessivo e dell’impatto sui conti pubblici delle misure prese in questi anni a tale scopo. Se l’aumento dell’Iva avrebbe impatti pesantissimi, in particolare sui più deboli, quanto hanno pesato e pesano decine di miliardi che non si sono potuti impiegare in investimenti, ricerca e sviluppo, misure di contrasto alla povertà o in altri utilizzi? Quanto pesa l’impossibilità di mettere in campo politiche pubbliche di sviluppo, dal momento che circa tre quarti della manovra sono bloccati per queste clausole?
Se questo è il quadro entro cui si muove il Governo, le (poche) risorse rimanenti avrebbero potuto essere utilizzate in maniera radicalmente differente. Bisogna riconoscere che c’è un impegno positivo in alcuni ambiti, come per l’aumento dei fondi per la lotta alla povertà o l’inclusione. Le risorse non sono poche, ma restano fortemente insufficienti rispetto alla platea dei beneficiari, ovvero a chi si trova in situazione di povertà assoluta. Leggendo gli impegni scritti nella Legge di Bilancio 2018 per gli anni successivi, emerge comunque l’intenzione di incrementare le risorse in futuro, procedendo per gradi.
Ma è proprio questo il “vorrei ma non posso” della manovra. Gli impegni di spesa che avrebbero le maggiori ricadute sono spostati dal 2019 in poi. A volere concedere il beneficio del dubbio si può ipotizzare una visione e un impegno di lungo periodo: vengono messi in moto dei meccanismi, poi a mano a mano che le cose vengono implementate si guardano i risultati e si rafforzano gli impegni. Tutto giusto e condivisibile, se non fosse per un particolare: tra pochi mesi si vota, e nessuno ha la sfera di cristallo per sapere quale sarà il prossimo Governo e se tali impegni verranno confermati.
Ci si domanda che senso abbia, per l’ultima manovra della legislatura, prevedere impegni minimi per il 2018 e cifre anche cinque o sei volte maggiori negli anni successivi, sui quali ovviamente l’attuale Governo non ha possibilità di decidere. Solo un esempio, tra i molti – troppi – che si trovano nella manovra: per “l’assunzione di nuovi ricercatori nelle università e negli Enti pubblici di ricerca” (art. 56) sono previsti 12 milioni di euro nel 2018, ma 76,5 dal 2019.
Siamo felici di vedere questo aumento, peccato che a confermare se farlo o meno dovrà essere il Governo che scriverà la Legge di Bilancio del 2019, ovvero quello che si insedierà con le prossime elezioni. La vetta si tocca forse per quanto riguarda gli “impegni per la mobilità sostenibile” (art. 10). Ben 100 milioni all’anno! Una cifra davvero notevole e che potrebbe fare la differenza se impiegata bene, tanto per la creazione di posti di lavoro ad alta qualificazione, quanto in termini di politiche industriali e per l’ambiente. C’è solo un piccolissimo particolare: i 100 milioni l’anno sono previsti dal 2019 al 2033. Per il 2018, l’importo previsto è zero.
In questo contesto, quel poco che rimane per il 2018 viene – per l’ennesima volta – utilizzato principalmente per politiche lato offerta, quando in Italia è la domanda a mancare. Diseguaglianze crescenti e precarietà, sfiducia e mancanza di potere di acquisto, mancati investimenti delle imprese: sono questi gli aspetti che dovrebbero essere al centro dell’agenda politica, non gli ennesimi sgravi. Le imprese italiane non assumono perché il costo del lavoro è eccessivo, o al contrario perché non c’è domanda e la ripresa è debole e incerta? In altre parole sarebbero più efficaci delle politiche lato offerta o lato domanda?
La manovra una volta di più sposa una visione in cui la competitività viene assunta come fine in se stesso, con politiche lato offerta che dovrebbero appunto permettere alle nostre imprese di competere. Misure che si risolvono in maggiore precarietà sul lavoro, quindi maggiore povertà e diseguaglianze che deprimono la domanda interna, con impatti negativi sulle stesse imprese. Il problema è che non parliamo di una competizione che si gioca sulla qualità di processi e prodotti, investendo in ricerca e formazione, ma al contrario di una corsa verso il fondo, inseguendo la Cina sul piano del costo e dei diritti del lavoro o i paradisi fiscali su quello della tassazione.
In conclusione, una manovra con poche luci e moltissime ombre, dove i vincoli europei non possono rappresentare un alibi. Non solo perché sarà lo stesso Parlamento a decidere se ratificare o meno il Fiscal Compact; non solo perché anche all’interno della cornice degli impegni da rispettare le cose si sarebbero potute fare molto diversamente; ma soprattutto per la visione di insieme che ha guidato le scelte degli ultimi anni, tra austerità per il pubblico e competitività del privato come unico possibile motore della “crescita”. Una visione che viene purtroppo pienamente confermata con la Legge di Bilancio 2018.
Il testo pubblicato costituisce l’introduzione del Rapporto Sbilanciamoci! 2018 che sarà presentato giovedì 16 novembre alla Camera dei Dep