Partiamo da qui. La cultura e le pratiche di esclusione, stigmatizzazione, discriminazione dei migranti e delle minoranze rom interessano trasversalmente tutte le culture politiche e l’operato di molte Amministrazioni locali, indipendentemente dal loro colore. Il razzismo attecchisce del resto facilmente in una parte crescente dell’opinione pubblica, sempre più disorientata di fronte agli effetti delle molteplici […]
Partiamo da qui. La cultura e le pratiche di esclusione, stigmatizzazione, discriminazione dei migranti e delle minoranze rom interessano trasversalmente tutte le culture politiche e l’operato di molte Amministrazioni locali, indipendentemente dal loro colore.
Il razzismo attecchisce del resto facilmente in una parte crescente dell’opinione pubblica, sempre più disorientata di fronte agli effetti delle molteplici crisi in corso: quella economico-sociale (i cui effetti stentano a dissolversi), quella politica e quella internazionale. La tentazione di cercare un rifugio nell’egoismo, nella difesa del proprio particulare o, al più, di quello di una comunità locale o nazionale scelta per definire artificiosamente un’identità sociale di cui, evidentemente, si sente la mancanza, sta riemergendo in modo diffuso. Tanto che non solo un europarlamentare può permettersi di definire i rom come “la feccia della società” nel corso di una trasmissione televisiva popolare, ma viene sommerso dagli applausi di buona parte del pubblico presente in studio.
Gli attentati di Parigi e Bruxelles hanno gettato dunque legna su un fuoco d’intolleranza, di ostilità e di razzismo che non aveva alcun bisogno di essere alimentato.
In questo clima si colloca la crisi umanitaria che dai lontani conflitti in Siria, Iraq, Somalia, Eritrea, Afghanistan, Nigeria e Sudan (solo per citarne alcuni) conduce nelle città europee migliaia di uomini, donne e bambini, ammesso che riescano a evitare le navi militari e a superare i muri e i recinti di filo spinato che intenderebbero respingerli dalla Fortezza Europa.
Oggi l’attenzione è tutta rivolta alla Grecia (875mila persone accolte nel solo 2015), ma 153mila persone sono giunte nello stesso anno via mare in Italia (erano state più di 170mila nel 2014): più del doppio di quelle 62.692 persone che nel 2011 indussero il Governo Berlusconi a proclamare la cosiddetta “emergenza Nord-Africa”. Tra queste, 16.478 sono i minori e 12.360 i minori non accompagnati. Al 30 gennaio 2016 il sistema polimorfo di accoglienza pubblico aveva in carico 104.750 persone, in maggioranza ospitate nei Centri di Accoglienza Straordinari (che il Ministero dell’Interno definisce “strutture temporanee”, ma che tali non sono).
Il varo di un Piano Nazionale per la gestione dell’impatto migratorio, sancito in sede di Conferenza Unificata tra Stato-Regioni ed Enti locali nel 2014, il dibattito sviluppato in Parlamento e nel Consiglio Europeo sull’Agenda europea sulla migrazione e quello, molto spesso fazioso, dei media sui “costi dell’accoglienza” esacerbato dall’avvio dell’indagine “Mafia Capitale”, hanno ancora una volta sbilanciato l’attenzione, l’operato e le risorse pubbliche nazionali e comunitarie sul versante delle attività di gestione e controllo dei flussi migratori, di soccorso in mare e della prima accoglienza, continuando a lasciare in secondo piano gli interventi di inclusione sociale, scolastica e lavorativa di quei 5 milioni di persone straniere (un milione di minori) che vivono ormai stabilmente nel nostro Paese.
Gli sforzi indubbiamente compiuti per rafforzare il sistema di accoglienza (da una capienza di circa 22mila posti nel 2013 si è passati ai più di 100mila attuali) hanno replicato alcune delle storture già presenti negli anni precedenti. Ad oggi la risposta istituzionale sembra priva di quella lungimiranza che sarebbe necessaria per gestire un fenomeno sociale, storico e strutturale che l’attuale crisi umanitaria ha reso più complesso da gestire.