Oggi tutto è dominato dalla flessibilità e dalla apparente libertà di scelta, ma il tempo di vita si è trasformato in tempo economico e non lo distinguiamo più dal lavoro-consumo-connessione.
Le feste pasquali hanno riproposto il tema delle aperture festive di GDO, outlet e servizi di ristorazione. Con l’opposizione della Chiesa, in nome del rispetto per l’uomo e per il tempo e lo spazio del sacro; e dei sindacati, in nome dei diritti del lavoro, della dignità dell’uomo, della libertà. Con il favore invece di Feder-distribuzione che ha snocciolato questi dati relativi alla giornata di Pasqua: saracinesche alzate per il 19% delle imprese aderenti, con il 25% dei negozi alimentari (il 13% a orario ridotto) e il 7% dei non alimentari. Per Pasquetta, invece, aperture al 60% degli iscritti (il 68% per il settore alimentare e il 44% per l’abbigliamento). Una scelta obbligata – per vincere sull’e-commerce e sostenere la vocazione turistica dell’Italia.
Ma aprire o meno durante le feste? Rispondiamo di sì, ma solo sulla base di una vera e libera volontarietà nella scelta del lavoratore (come oggi, invece quasi mai accade) e soprattutto con un congruo aumento di salario. Vietando per legge il ricorso a lavoratori precari e interinali. E ribadendo che le aperture festive devono restare una assoluta eccezione, sempre distinguendo tra vero servizio al turista (come potrebbe essere la ristorazione) e puro sfruttamento del lavoro per profitto privato.
Premesso che l’Italia è l’unico paese europeo che non prevede restrizioni di orari (e di aperture) – anche se moltissime, nei paesi europei sono le eccezioni (che spesso diventano la regola) – chiediamoci perché questo è avvenuto e perché continua ad accadere, da molti venendo presentato come il nuovo che avanza e che quindi non si può fermare. E la risposta – in estrema sintesi – è che se il lavoro doveva diventare flessibile, uberizzato, on demand, di piattaforma – perché questo impone il mercato – lo stesso non poteva non avvenire nel consumo. Consumo che è l’altra forma di lavoro che incessantemente dobbiamo svolgere a produttività crescente – e se non ci bastano i redditi, ecco che il sistema gentilmente inventa il low cost – per alimentare il capitalismo nella sua incessante distruzione creatrice.
Oggi tutto è dominato dalla flessibilità e dalla apparente libertà di scelta, ma il tempo di vita si è trasformato in tempo economico e non distinguiamo più tra tempo di vita e tempo di lavoro-consumo-connessione. In nome della libertà promessa dalla rete (le cui retoriche libertarie di vent’anni fa garantivano per altro un lavoro tutto intellettuale, senza fatica e con molto tempo libero, illudendoci di un meraviglioso e cognitivo post-fordismo) e dal neoliberalismo, in realtà diventiamo sempre meno liberi cittadini, sempre meno persone e sempre più oggetti di mercato nel senso di (liberamente) assoggettati al capitale e alla rete. Ma questo è appunto l’effetto di questi ultimi trent’anni di ideologia neoliberale e di nuovismo tecnologico, il cui obiettivo era appunto quello di trasformare la società in mercato, il cittadino in cliente, le persone in capitale umano, ciascuno in imprenditore di se stesso e ognuno in nodo della rete. Ponendo l’ordine del mercato come sovra-ordinante rispetto alle istituzioni politiche e alle Costituzioni, da ridurre semmai a sub-ordinate del e al mercato. E avendo noi ormai introiettato questa favola della libertà mediante il mercato e la tecnica, ci auto-rinchiudiamo sempre più in quella che Max Weber chiamava la gabbia d’acciaio del capitalismo. Oggi divenuta gabbia virtuale.
Il capitalismo e il mercato non sono più dei mezzi che la società utilizza per migliorare le sue condizioni di vita – come accadeva quando la politica regolava e conteneva il mercato, l’iniziativa economica privata era libera ma finalizzata a produrre utilità sociale (come recita l’articolo 41 della nostra Costituzione), la ricchezza doveva essere redistribuita dall’alto verso il basso (e non viceversa, come oggi). L’accrescimento del profitto e l’assoggettamento di ciascuno alle leggi del mercato sono divenuti oggi il fine della società e di ciascuno, creando una ancor più unidimensionale forma di vita rispetto ai tempi di Marcuse. Ne è infine nato un sistema quasi-perfetto – che definiamo come tecno-capitalismo – appunto di assoggettamento in nome della libertà che comprende il lavoro di produzione (lavorare sempre, senza più orario, facendoci imprenditori di noi stessi, collaborando con l’impresa e facendo nostra la sua mission), quello di consumo (negozi aperti 24 ore su 24 in nome della libertà di scelta o facendoci prosumer o membri di una brand community) e ciò che facciamo in rete. Rete che ci ha insegnato a dover essere sempre connessi anche qui 24 ore su 24 perché questo in realtà è il modo (mascherato ancora una volta dalla illusione di libertà che il web ci offre) con cui i signori della Silicon Valley possono profilarci e estrarre i dati che poi vendono per il proprio profitto – e il controllo è l’essenza stessa del capitalismo e maggiore è la promessa di libertà, maggiore deve essere il controllo panottico e la trasparenza di ciascuno (facile, con la rete).
Tornando alle aperture festive, quello che il tecno-capitalismo realizza oggi grazie alla rete e alla disarticolazione e precarizzazione del lavoro, è un utilizzo sempre più esaustivo (come scriveva Michel Foucault) del tempo e della vita. Ovvero: occorre riempire ogni attimo di tempo e ogni momento di vita di una quantità sempre maggiore di attività economiche, siano esse lavoro (la produttività da aumentare), consumo (che non deve fermarsi mai), navigazione in rete (dover essere sempre connessi). Tutta l’organizzazione capitalistica del lavoro – dalle manifatture della prima rivoluzione industriale (e dalla fabbrica di spilli di Adam Smith) al tempo reale della rete di oggi – è una rincorsa infinita alla eliminazione di quelli che per un uomo sarebbero i tempi di vita (riposo, riflessione, pensare, conoscere, amare, socializzare) ma che per il tecno-capitalismo sono insopportabili tempi morti che devono essere quindi azzerati o resi utili e produttivi di profitto. Le aperture dei negozi nelle festività – così come il dover condividere via rete – rispondono a questa logica.
E se la Chiesa, dal suo punto di vista, contesta giustamente questa trasformazione/degenerazione del tempo del sacro in tempo capitalista (ma dovremmo rileggere Jacques Le Goff e il suo racconto sul passaggio dal tempo della Chiesa al tempo del mercante), noi – da laici – contestiamo questo sfruttamento del tempo e della vita da parte del capitalismo e della tecnica dal punto di vista della libertà dell’uomo (quella vera, non quella falsificata dal neoliberalismo e dalla rete), della qualità della vita, della responsabilità verso l’ambiente e le future generazioni. Ma il capitalismo è anch’esso una religione, come scriveva Walter Benjamin quasi cento anni fa, per di più a culto incessante (e in tempi più vicini molti hanno scritto di religione dei consumi e di supermercati e outlet come di cattedrali del consumo) – anche se oggi dovremmo aggiornare la definizione e dire, come abbiamo scritto, che religione è la tecnica & il capitalismo. Che si è sovrapposta alla religione tradizionale, sostituendola con nuovi riti, nuove cerimonie, nuovi catechismi e una nuova teologia. E quindi, e laicamente è utile richiamare ciò che aveva detto l’economista Claudio Napoleoni: perché vi sia democrazia occorre che massima sia la differenza e la distanza tra società e capitalismo. E oggi, aggiungiamo e integriamo, tra società e tecnica. Quella distanza/differenza che invece tecnica e neoliberalismo hanno deliberatamente cancellato negli ultimi trent’anni, facendoci credere che questa fosse la libertà.
E allora, per non morire capitalisti, premiamo idealmente il tasto rewind e torniamo al futuro, cioè alla Costituzione.