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Il sindacato e la democrazia in Italia

La storia e la trasformazione del sindacato italiano nel libro di Giulio Marcon, presentato a Roma il 20 maggio. Il segretario generale della Cgil nell’introduzione tratteggia le sfide dell’oggi e le forme nuove della rappresentanza dei lavoratori, a partire dai territori.

Il libro “Il sindacato nell’Italia che cambia” di Giulio Marcon – presentato il 20 maggio alle 17 e 30 a Roma in via di Porta Maggiore 52, con Ilaria Manti (ricercatrice e attivista di @nonna_roma), Giulio Marcon (autore del libro), Goffredo Fofi (scrittore e saggista) e Maurizio Landini (segretario generale @cgilnazionale) e la giornalista Frida Nacinovich a coordinare gli interventi – è un contributo importante sul futuro del sindacato di fronte ai cambiamenti nel lavoro, nella struttura economica, produttiva e sociale del Paese.

Altre volte in passato il sindacato ha conosciuto momenti di grande trasformazione del suo modo di essere e del suo rapporto con le lavoratrici e i lavoratori. Richiamarne la storia, analizzarne le esperienze – si sottolinea nel libro – non è un artificio retorico né un semplice atto di nostalgia rispetto ad un passato ricco e complesso. Esattamente il contrario: è proprio guardando a quella storia che si può capire meglio il mondo di oggi e trarre utili indicazioni per dare nuovo slancio e impulso ad un soggetto fondamentale della rappresentanza collettiva. Ed è proprio in quella storia che si ritrova il tratto fondamentale, quanto originale, del movimento sindacale italiano e della CGIL in particolare: essere un soggetto confederale. Un sindacato che, insieme alla rappresentanza degli interessi parziali, vuole affermare un più generale progetto di trasformazione. Le Camere del Lavoro, ad esempio, nate tra la fine dell’800 e l’inizio del Novecento grazie anche al decisivo impulso di una figura come quella di Gnocchi Viani, andarono ben oltre il sindacato di mestiere. Lì si incontravano e organizzavano il lavoratore precario, il disoccupato, il lavoro autonomo, il contadino, il sottoproletario. Erano il luogo della solidarietà, del mutualismo. Lì si imparava anche a leggere e scrivere. E già in quelle sedi, con la loro fondamentale iniziativa, si poneva la grande questione dell’emancipazione e della liberazione delle donne. Il libro si sofferma poi sull’esperienza consiliare del “biennio rosso” del 1919-1921 e sulle lotte operaie del 1968/1969, l’altro “biennio rosso”. Esperienze e contesti assai diversi che il testo bene evidenzia. Entrambe però vanno oltre la rivendicazione immediata. L’occupazione e il tentativo di autogestione a Torino e nelle fabbriche del Nord cercava di affermare un nuovo Protagonismo operaio, il nucleo forte per un diverso funzionamento dello Stato. Come è noto quell’esperienza rifluì e anzi, come ricorda giustamente Giulio Marcon, si affermò quando “si era già nella fase di ripiegamento”. Un’esperienza comunque fondamentale nell’azione e nella riflessione di Antonio Gramsci e dell’Ordine Nuovo.

È alla fine degli anni ‘60 e all’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso che il protagonismo di una nuova classe operaia contribuisce a cambiare profondamente gli equilibri economici e sociali del Paese e il modo di essere del sindacato stesso. Molti giovani operai, che per la gran parte provengono dal Mezzogiorno, entrano nelle fabbriche del Nord e si trovano alle prese con l’organizzazione tayloristica del lavoro, con la catena di montaggio. Si apre una fase intensa di lotte i cui contenuti sono assai innovativi. Non solo più salario e meno orario ma si contestano i ritmi, il cottimo, le gerarchie. Il tema della salute nei posti di lavoro si afferma come questione centrale. 

C’è un punto di fondamentale importanza che riguarda proprio le forme e il ruolo della rappresentanza sindacale. I contenuti di quelle lotte evidenziano infatti i limiti dei tradizionali organismi della rappresentanza sindacale: le commissioni interne. Prendono così vita nuove strutture, i consigli di fabbrica. Cambia e si rinnova la base e il luogo della rappresentanza che si sposta sempre di più verso le lavoratrici e i lavoratori, verso il reparto prima e il gruppo omogeneo poi. L’elezione dei delegati avviene su scheda bianca e ad essa partecipano tutti i lavoratori. 

Qualità dei contenuti e degli obiettivi, autonomia, iniziativa dal basso e intreccio con la presenza del sindacato consentirono al movimento dei consigli di fabbrica di durare nel tempo e di strappare risultati importanti: lo Statuto dei lavoratori, le 150 ore per conquistare e cambiare il sapere, l’inquadramento unico tra impiegati e operai. In sostanza, nella storia del sindacato confederale italiano i consigli di fabbrica hanno contribuito a migliorare le condizioni di lavoro e hanno scritto una pagina importante della stessa unità sindacale. Il retroterra di quella importante stagione di lotte operaie e di partecipazione democratica portò a trasformazioni profonde della società italiana e a fondamentali riforme. L’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, la chiusura dei manicomi con la legge 180, il divorzio, la legislazione sull’interruzione di gravidanza, la parità uomo donna, il nuovo diritto di famiglia, gli asili nido e la scuola a tempo pieno. Insomma, quelle della fine degli anni ‘60 del secolo scorso furono indubbiamente lotte sindacali, ma i loro contenuti fortemente innovativi, le forme democratiche che le sostennero, la partecipazione che sollecitarono ebbero un significato e un valore anche politico. Contribuirono a cambiare non solo le condizioni di vita e di lavoro ma cultura e valori di riferimento.

Come evidenzia Giulio Marcon nel libro, nel corso degli anni vi sono stati cambiamenti profondi nella struttura produttiva e nel mondo del lavoro. La cosiddetta “produzione snella”, il tramonto della grande fabbrica come modello organizzativo della produzione industriale, le esternalizzazioni di funzioni che prima si svolgevano nelle imprese, hanno avuto un impatto pesante sul lavoro. Inoltre la catena degli appalti e dei subappalti ha finito con il produrre disuguaglianze di redditi e di diritti. Sono processi che hanno prodotto frammentazione, parcellizzazione, sfruttamento del lavoro fino alla sua forma più estrema: quella dell’occupazione precaria e di scarsa qualità oggi sempre più diffusa. Tutto ciò ha ricadute pesanti sulle condizioni delle persone. Il lavoro, diversamente dal passato, è sempre meno luogo di identità e occasione di emancipazione e sempre più, invece, fattore di alienazione e solitudine. Si sottolinea spesso che la nuova rivoluzione tecnologica offra le basi per una diversa organizzazione e qualità del lavoro. Senza dubbio le nuove tecnologie potrebbero offrire le condizioni di una organizzazione del lavoro meno gerarchica, più aperta, ove prevale l’autonomia e l’intelligenza delle lavoratrici e dei lavoratori. Oggi però non è questa la condizione prevalente. In realtà quella rivoluzione tecnologica, guidata prevalentemente dalla logica del mercato e del profitto, ha prodotto e sta producendo nuove fratture e faglie tra un nucleo ristretto di persone che svolge funzioni strategiche per le imprese e un’area diffusa di lavoratori che svolgono mansioni ripetitive e a rischio di obsolescenza del loro bagaglio formativo. Nelle lunghe catene del valore, collegate tra loro proprio dalle nuove tecnologie digitali, convivono lavori stabili e relativamente protetti, con lavori precari, instabili, sottopagati e al limite dello schiavismo. 

Quelli che abbiamo fin qui richiamato sono processi che hanno aperto problemi nuovi e messo in discussione la stessa capacità di rappresentanza del sindacato.

Ridare voce al mondo del lavoro e ricostruirne un nuovo protagonismo è quindi un percorso lungo, irto di ostacoli ma irrinunciabile. Tanto più oggi quando il sindacato è sotto attacco. Lo si vorrebbe, infatti, relegare in un angolo, chiuderlo in un ruolo angusto, aziendalista presentandolo come una delle tante corporazioni che sarebbero di ostacolo alla crescita del Paese. Noi non intendiamo consegnarci a questa prospettiva che minerebbe proprio la natura del sindacato del nostro Paese. E intendiamo contrastare questo attacco riaffermando e sviluppando il principio stesso della confederalità che consiste proprio nella battaglia per l’unificazione del mondo del lavoro, per dare ad esso una coscienza unitaria, una identità che non sia solo la sommatoria di condizioni settoriali. In questo percorso intendiamo rappresentare tutti coloro che, in un mondo del lavoro frammentato e diviso, non si sentono rappresentati. Vogliamo farlo agendo su due terreni fondamentali. Costruendo e praticando, in primo luogo, forme di democrazia e rappresentanza che sappiano cogliere la nuova realtà del mondo del lavoro: nelle catene degli appalti e dei subappalti, nelle catene del valore, in tutti quei luoghi di lavoro dove esistono disomogeneità di condizioni e di diritti.

Si può pensare, ad esempio, oltre all’elezione ovunque possibile delle RSU, a delegati e delegate di sito e di filiera. Lavoratrici e lavoratori, cioè, che tentano, a partire dalla propria funzione di rappresentanza, di unire ciò che oggi è diviso. Ciò a cui non si può rinunciare è la partecipazione democratica del mondo del lavoro, il diritto delle lavoratrici e dei lavoratori di decidere sulle proprie condizioni, di votare su piattaforme e accordi che li riguardano. Poi bisogna ripartire dal territorio. Proprio la frammentazione del lavoro, infatti, richiede al sindacato e al suo ruolo di soggetto della contrattazione di occuparsi della complessità della vita delle persone. È sul territorio che si possono costruire vertenze su servizi, sanità, ambiente, trasporti, scuola, cultura, tempo libero. È anche da lì che si guarda al lavoratore e alla lavoratrice non solo nell’esercizio del proprio lavoro ma anche nella loro condizione sociale. Si tratta in sostanza di costruire una nuova connessione tra i luoghi di lavoro e la realtà sociale che sta fuori di esso. Da questo punto di vista il sindacato di strada può essere davvero uno strumento importante per costruire nuove forme di partecipazione democratica e rappresentanza. In questo percorso possono svolgere un ruolo decisivo proprio le strutture confederali territoriali, le Camere del lavoro, quali luoghi di unificazione delle diverse figure sociali. Si tratta oggi di ricostruirne la storia e riattualizzarne valori e funzioni proprio per interpretare al meglio e per dare risposte concrete alle domande sociali che una realtà complessa e in costante trasformazione pone a chiunque voglia cambiare lo stato delle cose presenti. Ruolo delle Camere del lavoro, centralità del territorio, sindacato di strada sono strumenti irrinunciabili per affermare nuove forme di democrazia e partecipazione. Indubbiamente tutto ciò richiede un cambiamento profondo del modo di essere del sindacato. Spostare il baricentro della sua struttura verso il basso, superare burocratismi e autoreferenzialità diventano aspetti decisivi se si vuole davvero dare vita ad un processo democratico allargato. Nel libro sono riportate esperienze e testimonianze di strutture della CGIL che cercano di andare in questa direzione. Esperienze che si stanno diffondendo e che tentano di aprirsi al confronto con reti sociali e soggetti anche diversi dalla tradizione del movimento operaio: la cultura ambientalista, la cultura della differenza del movimento femminista, le tante realtà che operano nel campo dei nuovi diritti. Culture pratiche diverse dalla storia del movimento sindacale ma decisive per un progetto di trasformazione della società orientato verso la qualità delle produzioni e del lavoro, la rivalutazione dei beni comuni e pubblici, la conoscenza e la cultura, la qualità sociale.